Scuola e DAD: un passo avanti e due rotelle indietro

di Alberto Battaggia

Il dibattito di questi mesi sulla “didattica a distanza”, confuso e spesso superficiale, è stato il puntuale riflesso delle contraddizioni che avvolgono il nostro sistema scolastico. Da una parte, una macchina vecchia, sempre in riparazione, male attrezzata, che arranca appena la strada sale un poco, figuriamoci quando diventa ripida; dall’altra, una considerazione sociale e politica oscillante tra la commiserazione pietistica e la retorica fine a se stessa. Chi, di recente, ha provato a investirci risorse e credibilità – il governo Renzi, nel 2016 – ci ha rimesso subito le penne.

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Sul tema dell’istruzione in tempi di lockdown sono intervenuti, con sorprendente disinvoltura, psicoanalisti, filosofi, gommisti, periti agrari, mamme, politici di seria A e di serie B, alpinisti, cantanti, liberi pensatori… Tutti, d’altronde, sono stati a scuola. E tutti quindi hanno parlato di metodologie didattiche in gioiosa libertà, scambiando un problema vero: le esigenze di prevenzione dal Covid; con uno falso: la perfida DAD, espressione di una disumana deriva tecnocratica. Lungi dal ringraziare il cielo che la più terrificante pandemia dai tempi della “spagnola” si sia diffusa in un’epoca telematica, contenendo così catastrofi economiche oltre che culturali altrimenti devastanti, i più, spalleggiati da molti docenti, si sono arruolati alla crociata contro computer e connessioni.

La questione, tuttavia, è puramente professionale, E a questo livello, innanzitutto, andrebbe trattata. Cerchiamo di fissare alcuni punti fermi. L’istruzione scolastica, dall’infanzia all’esame di stato, va garantita, in via ordinaria, attraverso lezioni in presenza, per motivi pedagogici ed educativi. Su questo non ci piove. Nessun insegnante degno di questo nome si sognerebbe di teorizzare la conversione di massa dell’istruzione nazionale in forme telematiche. Non avrebbe senso. Nello stesso tempo, attività di “didattica digitale” dovrebbero essere presenti da molto tempo nella programmazione scolastica ordinaria: non in una logica emergenziale, ma per arricchire in modo significativo i processi di apprendimento dei ragazzi.

In verità, si dovrebbe parlare solo di “didattica digitale”: quella “a distanza” è una variante imposta dall’emergenza. Di didattica assistita da tecnologie digitali, infatti, si discute, nella ricerca pedagogica internazionale, da almeno 30 anni. Così come, prima di allora, per altri 30, ci si era occupati dell’influenza di televisioni e audiovisivi. L’esperienza dell’apprendimento, per natura, è strettamente legata, da secoli, agli artifici che la assistono: dal libro stampato alla realtà aumentata.

Di didattica assistita da tecnologie digitali si discute, nella ricerca pedagogica internazionale, da 30 anni

Agli inizi degli anni Novanta, pagine web, personal pc a prezzo popolare e poi, negli ultimi 15 anni, smartphone e tablet hanno aperto ai ragazzi nuove affascinanti opportunità: l’accesso a una quantità inesauribile di informazioni e risorse culturali, per svolgere ricerche, correlazioni, approfondimenti; e la disponibilità di software dedicati (tutorial, simulazioni, game…) funzionali alla comprensione di specifici argomenti; la possibilità di lavorare in rete cooperando e collaborando con i compagni.

Dalla riflessione e dalle pratiche di insegnamento è risultato evidente come le tecnologie digitali potessero rafforzare sia le forme tradizionali di didattica, frontali, per le quali il “sapere” è un contenuto che si travasa da un vaso (il profe col suo bravo manuale), ad un altro (lo studente); sia quelle, ben più innovative e stimolanti, basate sulla partecipazione, sulla laboratorialità, sul ruolo attivo del discente, chiamato a “costruire” il suo sapere esplorando, elaborando, sperimentando.

La didattica digitale funziona se inserita in una programmazione rigorosa e in un contesto educativo qualificato

In altri termini, si è compreso come le tecnologie tendevano a sostituire facilmente le funzioni banali della didattica, legate all’acquisizione passiva di contenuti; e che potevano invece esaltarne le funzioni nobili, coinvolgenti, finalizzate a costruire nei discenti competenze e capacità critiche. Attenzione: a patto di inserirle in una progettazione didattica corretta, pienamente consapevole, ben strutturata nei tempi, negli strumenti, negli obiettivi di apprendimento, nelle forme di valutazione. Facile? No di certo. E molto impegnativo. Una didattica di questo genere necessita di tre fattori cruciali: docenti ben preparati metodologicamente e in possesso di alcune competenze tecniche elementari; una dotazione infrastrutturale minima per organizzare il lavoro (piattaforme digitali, laboratori) e un clima didattico – la scuola dove si opera – aperto al cambiamento, alla sperimentazione, al confronto tra colleghi. In sostanza, occorre un contesto educativo qualificato in tutte le sue componenti. Ahinoi, non quello che caratterizza oggi buona parte della scuola italiana, Nord compreso.

Nei mesi scorsi, più che proporre “didattica a distanza”, ci si è limitati a trasferire on line le medesime operazioni didattiche, frontali, proprie della tradizione. Di positivo c’è che tanti docenti, costretti dall’emergenza, hanno finalmente imparato qualcosina: accedere ad una piattaforma, registrare un video, caricare una presentazione… Ma poi, fatalmente, sono emerse contraddizioni insormontabili, ad esempio nel momento della valutazione: come controllare che i compiti di casa non fossero copiati? Come impedire che la studentessa birichina non sbirciasse dietro la telecamera mentre veniva interrogata? I volenterosi professori hanno scoperto così che la sola valutazione “sommativa” on line, funziona ancora peggio di quella in presenza. Tuttavia, una valutazione anche “formativa”, basata sull’osservazione dei processi di apprendimento complessivo degli studenti in conoscenze, competenze e capacità, implica operazioni didattiche preliminari specifiche, non si può improvvisare.

Uno studente al lavoro

Chi oggi difende enfaticamente il bel tempo antico della “didattica in presenza”, difende, quasi sempre, quel modello frontale, superato, di didattica. L’alternativa non corre tra “buona didattica in presenza” e “cattiva didattica a distanza”, ma tra buona didattica e cattiva didattica. Occorre fare capire all’opinione pubblica che le difficoltà emerse in questi mesi non sono dipese dalla “didattica a distanza”, ma, innanzitutto, dalle carenze di formazione professionale di buona parte dei docenti italiani, che, ricordiamolo, incredibilmente, non è obbligatoria come in tutte le altre professioni.

Chi difende la “didattica in presenza”, difende, quasi sempre, quel modello frontale, superato, di didattica.

La formazione professionale non è obbligatoria

Un’aula-laboratorio

Ricordiamo anche che il MIUR , diversamente da quello che si crede, ha investito nel digitale colossali risorse in dotazioni infrastrutturali e in  formazione professionale dei docenti (sempre non obbligatoria)  fin dal 1997, col “Piano di sviluppo delle tecnologie didattiche“; poi con il piano FOR TIC del 2002 e del 2003;  per arrivare infine al  Piano Nazionale della Scuola digitale del 2015.

In secondo luogo, è mancata completamente la spinta propulsiva dei dirigenti scolastici. Molti di loro si sono rivelati del tutto inadeguati a guidare i necessari processi di modernizzazione. Hanno pesato sia la loro carenza di formazione specifica, sia, e specialmente, il fatto di avere vissuto le proposte dei loro docenti più motivati e propositivi come fattori di destabilizzazione, anche in termini di consenso, del loro istituto. All’appuntamento con l’emergenza Covid il sistema scolastico sarebbe arrivato con ben altra sicurezza se l’amministrazione, dal Miur ai presidi, in questi decenni, non avessero incredibilmente rinunciato ad esigere, dai dipendenti,  l’applicazione puntuale di leggi, indicazioni metodologiche e linee guida che pure sono presenti negli ordinamenti. Si pensi, per fare un altro esempio, alla riforma della “didattica delle competenze” (DPR 87 e 88 del 2011):  un oggetto ancora oggi misterioso e avversato da moltissimi docenti, anche nei collegi docenti, senza che accada nulla!  

E’ mancata completamente la spinta propulsiva dei dirigenti scolastici

In questi decenni, leggi, linee guida, programmi ministeriali disattesi senza che accadesse nulla

L’altra gravissima carenza emersa è stato il digital divide. Milioni di studenti, privi di device e di connessioni adeguate, non hanno potuto fruire nemmeno delle attività on line più o meno improvvisate messe eroicamente in piedi dai docenti, vista l’impreparazione generale del sistema, nei mesi del lockdown. La necessità di garantire a tutti i diritti di “cittadinanza digitale” è oggi un’emergenza democratica assoluta.

Per decenni uno scambio scellerato: assunzioni indiscriminate di massa; bassissime retribuzioni, dall’altro.

Il cumulo di problemi esplosi con la DAD rinvia alla storia delle nostre politiche scolastiche. Per decenni, governi e sindacati di ogni colore hanno negoziato demagogicamente la condizione professionale dei docenti sulla base di uno scambio scellerato: assunzioni indiscriminate di massa; insanzionabilità e illicenziabilità di fatto, da un lato; bassissime retribuzioni, dall’altro. I risultati sono sotto gli occhi di tutti:  il sistema scolastico nazionale non riesce a mettersi al passo con la realtà di oggi. Non è in grado di reagire alle sollecitazioni: né interne (la filiera amministrativa, gli ordinamenti) , né esterne (l’innovazione tecnologica, il mercato), rivelandosi  una macchina spesso inefficace ed inefficiente.

Che fare? Intanto dire con chiarezza le cose come stanno. La professione docente non può essere considerata una sorta di volontariato o di refugium peccatorum per laureati senza arte né parte. Ha bisogno di investimenti in infrastrutture, certo, ma specialmente di personale selezionato e altamente qualificato, adeguatamente retribuito, al quale chiedere competenze disciplinari precise sia nei contenuti che nelle metodologie; ha bisogno di dirigenti scolastici davvero preparati in senso manageriale, dotati di poteri che permettano loro di “dirigere” sul serio le risorse umane e materiali presenti nei loro istituti, facendosi promotori dei processi di innovazione.

Sarà l’emergenza Covid ad innescare la mitologica resilienza da tutti invocata? A dare un benefico scossone anche al pigro pachiderma scolastico? Se un segnale doveva venire dai primi investimenti – milioni per milioni di banchi mobili – sembrerebbe proprio di no. Un passo avanti e due rotelle indietro.

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