Dizionario del Tempo del Virus G-N

Game Changer (the)
Bansky 2020

di Moira Sbravati, funzionario pubblico

Anche Bansky, il famoso writer inglese, si è unito alla lunga schiera di donne e uomini che, in questi mesi, hanno reso omaggio ai sanitari impegnati nella lotta alla pandemia di COVID-19. Il 6 maggio 2020, all’Ospedale Universitario di Southampton, nella contea dell’Hampshire del Regno Unito, Bansky ha fatto recapitare un disegno in bianco e nero intitolato  The Game Changer  ( L’elemento di svolta). L’opera era accompagnata da un biglietto che diceva ” Thanks for all you’re doing. I hope this brightens the place up a bit, even if it is only black and white”, che nella traduzione in italiano recita: “Grazie per tutto il lavoro che state facendo. Spero che questo illumini un po’ il luogo anche se è solo in bianco e nero”. Il disegno è appeso a una parete vicino al reparto del pronto soccorso. I vertici del nosocomio comunicano che vi resterà sino alla fine dell’emergenza sanitaria; sarà poi  venduto all’asta per trarne fondi per il sistema sanitario inglese.

Bansky, The Game Changer, 2020

 Nessun dubbio sulla paternità dell’opera the game changer,  la cui foto è stata pubblicata sul profilo Instagram di Bansky, seguito da migliaia di fan in tutto il mondo. Poco meno di un metro quadro di carta, l’estro di Bansky ha saputo trasformare in un’ennesima provocazione artistica che non sarà senza un domani, per le emozioni che suscita nella sua mirabile semplicità. La tenerezza nasce nel momento in cui, rigettati sulla soglia dell’età adulta, ci si rende conto con angoscia dei vantaggi dell’infanzia, i vantaggi che da bambini non si poteva capire”, suonano leparole dello scrittore Milan Kundera, nel romanzo La vita è altrove, che aiutano a capire perchè Bansky abbia scelto di ringraziare i sanitari inglesi, ricorrendo all’immagine innocente di un bambino che gioca. Il gioco è forse, tra quelle umane, l’attività più autentica. perchè spontanea, fine a sè stessa e costruita liberamente per soddisfare un bisogno naturale, un’aspirazione sociale e affettiva.

In The game changer il  bambino  compie un atto che capovolge la realtà: alza il braccio, fa volare la bambola in figura di infermiera e così l’affranca dalla pesantezza del presente, donandole dei superpoteri che, per la durata limitata del gioco infantile, la trasformeranno in  una novella  eroina al pari di  Batman e Spiderman, lasciati temporaneamente in un cestino. La potenza del gesto ci cattura e, in una sorta di “mise en abyme“, ci fa partecipare al gioco. Con lo sguardo, è come se prolungassimo la sospensione aerea dell’infermiera, quasi volessimo che restasse per sempre lassù, come fece il pittore Marc Chagall nel celebre dipinto La passeggiata,  quando  sospese  eternamente nel cielo  Bella,  l’amore della sua vita.

Marc Chagall, La passeggiata, 1917-18

In The Game changer tutto è in bianco e nero, tranne la croce rossa sul petto dell’infermiera. Il rosso della croce agisce come lo studium di Roland Barthes e rimanda allo spirito di servizio e di abnegazione di tanti sanitari e alla passione per una professione, che la fondatrice delle scienze infermieristiche moderne, Florence Nightingale (1822-1910), descrisse mirabilmente con le seguenti parole: “L’assistenza è un’arte; e se deve essere realizzata come un’arte, richiede una devozione totale ed una dura preparazione, come per qualunque opera di pittore o scultore; con la differenza che non si ha a che fare con una tela o un gelido marmo, ma con il corpo umano, il tempio dello spirito di Dio. È una delle Belle Arti. Anzi, la più bella delle Arti Belle.

Il momento  in cui la comunità dei sanitari dell’ Ospedale Universitario di Southampton  rende pubblico l’omaggio di Bansky The Game Changer

Roncoferraro (MN), 13 maggio 2020

Bibliografia. Milan Kundera, La vita è altrove, Adelphi, 1992, Milano; Roland Barthes, La Camera Chiara. Nota sulla fotografia, 2003 Einaudi, Torino; Florence Nightingale, Cassandra. La donna della borghesia vittoriana, edizioni Medico-scientifiche, 2010 Torino.

GATTO

di Tommaso Tuppini, docente di filosofia univr

Capisco il diluvio di spiritosaggini sulla convenienza di avere un cane per farci la passeggiata («affitto cane…, mi prestate un cane…, cani in saldo per tutto il tempo della quarantena…»), capisco meno la felicità che viene dalla frequentazione diuturna con una forma di vita chiassosa e indigente, alla ricerca compulsiva di cibo e affetto, incapace di requie. Il padrone è lusingato dagli omaggi che il frenetico amico gli tributa, ma in cuor suo sa che questa devozione non conosce limiti neppure verso il più sprovveduto tra gli esseri umani. Il gatto, invece, non è devoto, «il mio gatto» è un ossimoro.

Gatto, orsetto o pietra?


Gatto è parola di etimologia incerta e d’origine – è stato ipotizzato di volta in volta – celtico-germanica, armena, semitico-orientale, è l’abracadabra dei filologi. Non solo l’erudizione, anche l’esperienza afferma che il gatto è una cosa imprendibile, perché un gatto non è semplicemente un gatto: visto di profilo gli occhi sono trasparenti e gelatinosi come quelli di un pesce, visto di fronte s’induriscono nelle agate di un cobra, il muso irrigidito e con le orecchie drittissime lo trasforma in un cucciolo d’orso, quando le fusa raggiungono l’acme si mette a tubare come un piccione, si lecca ed emette graziosi grugniti, accucciato è una sfinge, acciambellato è una pietra. Il cane ci riporta il legnetto per blandire il nostro sadismo infantile, il soffice predatore notturno deposita sull’uscio di casa un uccellino o un topo perché si sappia quanto siamo inetti. Il comportamento gattesco è una contestazione all’empatia, se si stende vicino c’illudiamo che è per compiacenza, invece è per metterci il sedere in faccia e frustarla dolcemente con la coda, e così dimostra che gl’incontri più felici sono all’insegna dell’equivoco, niente è meno simmetrico dell’appuntamento con un gatto, tra noi e lui soltanto l’incomprensione è reciproca: se lo chiamate non verrà, se gli lanciate la pallina si liscerà le orecchie. Noi lasciamo macchie d’inchiostro e fotografie e brutti ricordi, le tracce del gatto si cancellano subito, la sua corsa a ostacoli nell’appartamento è un ruscello tra i sassi. Davanti ai ninnoli troppo ingombranti, li picchietta perplesso con le zampe per farli cadere e vedere l’effetto che fa. Indifferente agli altri, vive la dedizione assoluta a un compito, le infinite caccie sottili agli insetti sono l’inseguimento di una fuga d’idee. Il gatto non ci ama, ci tollera, è bello avere vicino qualcuno che è migliore di noi e lo sa. La solitudine di cui godiamo in questi giorni è un bene prezioso, ma la solitudine con il gatto è una cosa metafisica.

Verona, 25 aprile 2020

GUERRA

di Carlo Saletti, storico e regista teatrale

Siamo in guerra, si sente dichiarare da ogni parte. Il parallelismo non regge, perlomeno in senso letterale. Non nella forma bellica conosciuta dalle generazioni che in Europa ci hanno preceduto e che viene definita, nella sua formulazione classica clausewitziana, “un atto di forza che ha per scopo di costringere l’avversario a sottomettersi alla nostra volontà”. Dal punto di vista dell’aggredito (noi), un nemico esiste ma è difficile attribuirgli razionalità: non vi è alcun progetto deliberato di dominio da parte sua, non terre da conquistare, ricchezze da predare o un popolo da asservire.

E tuttavia il sentimento di trovarsi come in guerra permane. Nella situazione eccezionale che si è deteterminata alcuni dei suoi elementi costitutivi hanno, in effetti, delle somiglianze con la condizione dell’essere in guerra. Due, principalmente: la prima, viviamo nella percezione del pericolo costante e generalizzato; la seconda, siamo consapevoli di non riuscire a localizzare il pericolo. Abita in noi, da qualche settimana, un sentimento di vulnerabilità.

Delle tipologie nella quale polemos è suddiviso, quelle di guerra totale e di guerra di guerriglia sembrano offrire qualche analogia con la situazione presente. Dalla nozione di guerra totale – Totaler Krieg nella locuzione originaria introdotta dal generale Erich Ludendorff nel 1935, per descrivere quel conflitto che coinvolge totalmente le risorse economiche ed umane di uno Stato – l’avere essa implicazioni sistemiche. Da quella di guerra di guerriglia – categoria suggerita dalla figura del cosiddetto franco-tiratore, apparso nel teatro di guerra franco-prussiano nell’ultimo trentennio dell’Ottocento – l’invisibilità del nemico. Somiglianze fugaci, tuttavia!

Franchi-tiratori nei Vosgi durante la guerra del 1870
(incisione tratta da “L’Illustration Européenne”, 1870)
Il 18 febbraio 1943, Joseph Goebbels chiama alla mobilitazione totale il popolo tedesco (manifesto dell’Ufficio propaganda del Governo degli Stati Uniti, 1943-1944)

Resta il fatto che, se pur non è una guerra quella che stiamo affrontando, le perdite umane e i danni economici che ne stanno già derivando sono altrettanto severi.

Custoza, 23 marzo 2020

Bibliografia. Carl von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano, 2017; Erich Ludendorff, Der totale Krieg, Ludendorffs Verlag, Monaco, 1935

Guerra dei mondi (la)
Herbert George Wells, 1897

di Alberto Battaggia, docente e giornalista

La guerra dei mondi è un romanzo narratologicamente scadente. Il problema sta tutto nel finale. Anche il regista Steven Spielberg, autore di un film nel 2005, dopo gli adattamenti di Orson Welles per la radio nel 1938 e di George Pal per il cinema nel 1953, osservava che “il finale non ha senso“. La vicenda, fino a quel momento, sarebbe ben costruita. Nel romanzo di Herbert George Wells, uno scrittore londinese osserva con l’amico astronomo Ogilvy strane esplosioni sulla superficie di Marte. Dopo alcuni giorni, iniziano a piovere strani cilindri, dai quali escono terrificanti e colossali creature meccaniche, dotate di tre lunghissime zampe e di una incontenibile furia distruttrice finalizzata al consumo di sangue umano.

Tripode alieno in un’illustrazione di Henrique Alvim Corrêa dell’edizione francese del 1906 de La guerra dei mondi. (Wikipedia)

La tensione, spasmodica, nasce dalla incontenibilità della catastrofe, di sapore biblico. Non c’è arma che regga lo scontro, riparo che possa farvi fronte. Una Sodoma e Gomorra universale che si abbatte su esseri umani sbigottiti e impotenti. Se il romanzo si fosse fermato qui, il romanzo di Wells sarebbe forse oggi ricordato come una strepitosa  allegoria nichilista. Poca cosa la specie umana, spazzata via da una violenza cosmica insensata. Senza un motivo, senza l’ira di un dio vendicatore; senza speranza. Punto e stop: come tutti sospettiamo che sia nelle cose, data la nostra onestà intellettuale profonda. Invece no. Incredibilmente, insperabilmente, una bella mattina i londinesi sopravvissuti scoprono i giganteschi tripodi afflosciati, distrutti da un piccolo banalissimo batterio umano, per loro esiziale. Andiamo: è un esito che rincuora i poveri di spirito. Non c’è un’azione complicante che prepari un deus ex machina (un’altra specie aliena amica; un tripode pentito che si allei con gli umani; uno scienziato pazzo che trovi l’antidoto…). No, semplicemente, gli esseri mostruosi si ammalano e muoiono. Ma che finale è?
Da settimane, leggiamo che forse arriveranno i vaccini, ma, lo sappiamo, i virus continuano a mutare: e allora? Alcuni farmaci antiartrite sembrano efficaci: eh, sì, ma sono solo palliativi, bazzecole; lockdown, distanza di sicurezza, mascherine…: la contagiosità è spaventosa, lo abbiamo capito, lo dobbiamo accettare: pian piano ci contageremo tutti…; una decimazione darwiniana, inesorabile, prima gli anziani malati, poi quelli più deboli, poi i meno anziani, poi….e i nostri progetti? e le vigne che abbiamo appena piantato? e i nostri figli? siamo al capolinea…siamo fottuti…poteva accadere…siamo scintille nell’universo infinito….è accaduto….Poi, improvvisamente, l’annuncio: il sole dell’estate ha sterminato il Coronavirus. I virologi lo spiegano: Sars-Cov-2, semplicemente, non regge ad una temperatura media di 26 gradi, quale si registra a partire da giugno nel nostro emisfero. L’estinzione è irreversibile: è tutto finito, via l’angoscia, apriamo le porte, torniamo a vivere!
Va bene, certo, che sollievo, che fortuna.
Ma che finale è?

Verona, 17 aprile 2020

Guerra del Peoloponneso
Tucidide, V sec. a.C.

di Francesco Bergamasco, traduttore

È ormai corrente tradurre attraverso la metafora della guerra i più diversi momenti della vita al tempo del virus: “siamo in guerra”, “i caduti”, il ritorno alla vita pre-virus assimilato alla ricostruzione del dopoguerra ecc. È un’assimilazione che suona spontanea, quasi “naturale”, anche perché non compare oggi per la prima volta.
Nel secondo libro della Guerra del Peloponneso (capp. 47-54) Tucidide descrive la peste che aggredisce Atene nel 429, nel secondo anno del grande conflitto in cui Atene e Sparta saranno opposte per quasi un trentennio. Il morbo colpisce con inaudita violenza, i medici sono incapaci di farvi fronte, gli dèi invocati non offrono alcun aiuto, le leggi e le norme morali non sono più rispettate. Il male va al di là di ogni descrizione. Lo storico tuttavia, fedele al proprio compito, cerca ugualmente di fornire un resoconto degli eventi, e lo fa mettendo in campo una duplice strategia. Da un lato conferisce rigore al suo sforzo attingendo alla scienza medica dell’epoca, in particolare nei sostantivi che designano i sintomi della malattia (arrossamento degli occhi, tosse, conati di vomito, ulcerazioni, pustole ecc.); dall’altro ricava i verbi di movimento che accompagnano la diffusione del male, o le reazioni che essa provoca, dalla terminologia in uso in ambito bellico (assalire, abbattersi, resistere, schiacciare, sopraffare). La medicina fornisce il lessico, la guerra la sintassi. Lo storico cerca di ricondurre un avvenimento naturale, terribile e irrazionale quale la peste, entro un quadro storico e razionale, assimilandolo all’evento più temibile, ma pur sempre “umano”, che l’uomo conosca: la guerra.

Tucidide


Più di venti secoli dopo, la metafora messa implicitamente in opera da Tucidide troverà un’espressione rovesciata nell’allegoria alla base della Peste di Albert Camus, (1947). In questo romanzo, la peste “sta per” la guerra: il fenomeno naturale viene convocato per spiegare un fatto storico. Ma la guerra che Camus ha alle spalle è la Seconda guerra mondiale, con la tragedia disumana e irrazionale che è stata lo sterminio degli ebrei. Tutto ciò non può essere raccontato direttamente o compreso ma solo alluso nella forma dell’allegoria.

Portogruaro, 13 aprile 2020.

HAMMER AND DANCE

di Carlo Saletti, storico e regista teatrale

Che piaccia o meno, vivere nel tempo del virus ci consiglia di trarre alcune lezioni dalla situazione attuale. La prima è relativa alla comprensione dello spazio in cui abitiamo. Possiamo riassumerla così: il repentino mutamento delle condizioni di vita, che abbiamo subito a causa del virus, è stato possibile poiché condividiamo l’habitat con agenti patogeni sconosciuti e, in alcuni casi, molto aggressivi. Attratti dalla fantascienza a immaginare improbabili forme viventi là, nell’infinitamente lontano, abbiamo perso di vista il fatto che esse hanno un’elevata possibilità di prosperare qui, nell’infinitamente piccolo – un virione di coronavirus, la singola particelle virale matura, possiede un diametro medio di circa 100 nm (corrispondenti a 0,0001 mm.).Ci siano trovati come nella storia che Platone, nel dialogo Teeteto, mette in bocca a Socrate: “Di Talete si racconta che mentre mirava gli astri e guardava in su, cadde nel pozzo. Una servetta di Tracia, piuttosto in gamba e carina, prendendolo in giro gli disse che lui desiderava conoscere i fenomeni celesti, ma si lasciava sfuggire quelli che aveva davanti a sé e sotto ai suoi piedi”.

Sperando di avere imparato la prima lezione, dovremmo far tesoro della seconda, che riguarda la cultura della tracotanza. Hýbris, nozione antica su cui è fondata la dimensione tragica dell’esistere, ci insegna che arroganza e presunzione sono colpe che ricadranno su di noi.Siamo figli di madre natura, non al di fuori e sopra di essa. L’idea di un mondo naturale distinto e che non reagisca ai mutamenti, che portiamo all’ambiente, è definibile come atto di tracotanza. “Abbiamo violato le ultime grandi foreste. Facciamo moltiplicare il bestiame allo stesso ritmo con il quale ci siamo moltiplicato noi. Viaggiamo in continuazione, spostandoci da un continente all’altro. Tocchiamo tutto e poi risaliamo su un bell’aeroplano e torniamo a casa. Siamo tentazioni irresistibili per i microbi più intraprendenti, perché i nostri corpi sono tanti e sono ovunque” (Quammen).
In questo caso, la caduta è stata ancor più rovinosa, per il fatto che la possibilità che si verificasse un’epidemia su scala globale era nota nella comunità scientifica. Sono stati questi avvertimenti, lanciati dagli specialisti all’indomani delle epidemie diffusesi a partire dagli anni Duemila, e non un’attitudine oracolare, a portare il presidente Obama ad affermare, il 2 dicembre 2014: “Potrebbe arrivare ed è probabile che arrivi, il giorno in cui ci sarà una malattia trasmissibile per via aerea che si rivelerà anche mortale”. Il possibile verificarsi di un evento epidemico era nell’aria ed eravamo stati avvertiti. Non è stato un accidente imprevisto.

L’intervento, tenuto nel dicembre del 2014 al National Institutes of Health, dell’allora presidente degli USA nel corso del quale si insisteva sulla necessità di disporre di un’infrastruttura su scala globale, per affrontare l’impatto di virus influenzali sconosciuti.

La terza lezione ha a che vedere con l’intervallo di tempo nel quale le condizioni precipitano. La si può riassumere nella seguente asserzione: è sufficiente un tempo ridotto per passare dalla condizione generale di protezione e sicurezza a quella di esposizione e vulnerabilità. Nella fattispecie, una parte cospicua degli abitanti del pianeta ha sperimentato, come mai prima, il brusco passaggio dalla rassicurazione (è poco più di un’influenza) alla lettura dei bollettini che danno conto delle centinaia di morti del giorno precedente. Nel nostro paese è bastata poco più di una settimana perché le previsioni più ottimistiche diventassero carta straccia e la patogenicità legata al virus si evidenziasse nelle sue devastanti conseguenze sulla salute pubblica e sul sistema sanitario. Dai 5 decessi registrati il 29 febbraio si è passati ai 133 del 7 marzo e alle dichiarazioni che la situazione non avrebbe comportato rischi apprezzabili, agli annunci dell’imminente collasso della sanità.

Sono state queste, il 7 marzo, le parole con le parole con cui l’assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera ha commentato la situazione: “In 15 giorni il sistema sanitario lombardo si è trovato a fronteggiare una diffusione del virus fulminea”.

Ciò ci conduce alla quarta lezione, relativa alla crescita del contagio. In essa si racconta che la crescita del contagio è esponenziale. Questo è un virus fast and furious, tale da aver prodotto una crisi sanitaria globale. Occorre che abbiamo chiara l’idea di cosa comporti una crescita esponenziale. L’esempio narrativo citato ogniqualvolta si debba chiarire questa nozione è il seguente. Si racconta che a un re fosse stato presentato il gioco degli scacchi, sino ad allora ignoto. Quell’uomo potente, dopo aver apprese le regole del gioco e giocato tutta la notte, rimase affascinato e volle ricompensare chi glielo aveva fatto conoscere. La risposta dell’uomo con la scacchiera fu che desiderava del riso, in misura determinata seguendo la legge del raddoppio, vale a dire un chicco per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta e così via sino alla sessantaquattresima e ultima casella della scacchiera. La somma finale dei chicchi e il loro peso lasciarono il faraone esterrefatto: essa sfiorava i diciotto miliardi di miliardi… A una inziale crescita graduale seguiva una brusca e inarrestabile impennata.

È questa l’essenza della crescita esponenziale, drammatica quando si esaminano i dati relativi ai numeri dei contagi registrati nelle prime settimane di epidemia nel nostro paese: dopo il primo caso, registrato il 18 febbraio, erano arrivati a 229, il 24 febbraio, e a 2.036, il 2 marzo. Se nella prima settimana il numero dei contagi era aumentato di più di 220 volte, in quella successiva si erano sommati 1.800 nuovi casi.

Riflettere sugli effetti di una crescita incontrollata dei contagiati ci porta alla quinta lezione, che riguarda il rischio di tracollo del sistema sanitario. La malattia, cui l’11 febbraio è stato dato il nome di COVID-19, minaccia nei casi gravi l’organo polmonare. Sorgono difficoltà respiratorie che possono sfociare in polmonite. La persona malata necessita di cure in ospedale e spesso anche di ossigeno. In alcuni pazienti i sintomi legati alle vie respiratorie si aggravano a tal punto da necessitare cure intense. In questo caso la funzione respiratoria deve essere supportata artificialmente. Conosciuto il tasso di contagiati in condizione critica e noto il numero dei posti disponibili nelle unità di terapia intensiva e del personale medico e infermieristico necessario, appare evidente, osservando l’andamento dell’epidemia, come le possibilità di salvare i pazienti ricoverati dipenda dalle capacità del sistema sanitario di garantire l’onerosa assistenza richiesta. Per il momento non sono noti né rimedi farmacologici, né è disponibile un vaccino. Lo scorso marzo, la rivista The Lancet Infectious Diseases pubblicava un articolo in cui si stimava la proporzione di contagiati necessitanti di ospedalizzazione. Lo studio richiamava un report redatto da OMS secondo il quale l’80% dei quasi 56.000 casi di contagio esaminati aveva sviluppato una malattia lieve o modesta, il 13,8% aveva sofferto di una forma grave di polmonite e il 6,1% si era trovato in condizioni tali da richiedere cure intensive. Secondo l’ipotesi formulata dai ricercatori, in mancanza di misure di contenimento la percentuale dei contagiati sulla popolazione sarebbe oscillata tra il 50 e l’80%. I due dati – quello del tasso di contagio stimato sulla popolazione e quello dei contagiati che avrebbero richiesto cure intensive – portava a valutare assai verosimile l’ipotesi che sarebbero “stati travolti anche i sistemi sanitari più avanzati” (Verity, Okell, Dorigatti, Winskill, Whittaker et alii). Quello che dicono i modelli è che l’inazione, vale a dire il lasciare libero corso al virus, avrebbe come conseguenza dei costi sociali, in termini di morti, spaventoso. Secondo uno studio dell’Australian National University apparso nell’ultima decade di febbraio ed elaborato su un modello previsionale basato su un tasso di letalità del 2.5%, il nostro paese rischierebbe di contare 147.000 morti. Se il virus non dovesse essere contenuto, negli Stati Uniti si avrebbero 589.000 (cifra dieci volte superiore a quella dei decessi annuali che nel paese si registrano per influenza). La stragrande maggioranza dei decessi avverrebbe in assenza di qualsivoglia assistenza, essendo il sistema sanitario nel frattempo collassato.

Il calcolatore dell’evoluzione epidemica, elaborato da Gabriel Goh et alii, consente di simulare i differenti scenari e le loro implicazioni sanitarie e sociali, partendo dalla variabile principale relativa al fattore di contagio

Avendo compreso questo, siamo giunti alla sesta lezione. Essa riguarda le nostre risposte all’avanzare dell’epidemia ed è in relazione con la velocità con cui sappiamo trovare soluzioni alle domande che via via si evidenziano è un fattore essenziale per salvare vite e salvaguardare il sistema nel suo complesso. Da più parti, nelle prime settimane, si è insistito sulla velocità con cui la malattia avanzava, superiore alla nostra. “Questo virus è più veloce di noi al momento”, sosteneva in un intervista rilasciata il 3 marzo l’epidemiologo Vittorio Demicheli, “e la sua diffusione supera la rapidità con la quale noi riusciamo ad identificare tutti i contatti di un positivo”. Ci siamo trovati, con l’emergenza planetaria, nella condizione di dover imparare tanto e di farlo in fretta per adeguarci al passo tenuto dal virus. Abbiamo capito di essere entrati in uno scenario, definito post-normale dagli epistemologi, che si verifica “quando i fatti sono incerti, la posta in gioco è alta, i valori in discussione fondamentali e le decisioni urgenti” (Funtowicz e Ravetz). Le forze in campo all’indomani dello scoppio della prima guerra mondiale si trovarono di fronte a un problema analogo dopo le prime settimane di scontri sul fronte occidentale, quando la guerra di movimento si trasformò in guerra di posizione (trincee) – in conseguenza del fatto che le dottrine di impiego tattico non erano compatibili con i sistemi d’arma messi a disposizione di tutte gli eserciti. Alla forma dinamica della guerra si era succeduta una forma statica, che determinò una condizione nuova e mai sperimentata su quella scala, che richiese due anni agli stati maggiori prima di essere risolta, con costi umani ed economici giganteschi.

Una condizione post-normale si verificò con la guerra di trincea, derivata dal radicale mutamento di forma subito dalle operazioni militari nella tarda estate del 1914, dopo i primi mesi di conflitto; essa obbligava gli stati maggiori a decisioni urgenti, in condizioni di incertezza e con valori fondamentali in gioco (la sopravvivenza stessi degli Stati belligeranti).

Se è il tempo ciò che serve per contrastare il virus e la malattia che esso porta, la settima lezione riguarda il guadagnare tempo. Come è meglio comportarsi per assicurarci un vantaggio sul virus, tale da consentire, nel breve periodo, di evitare il collasso della sanità, di ridurre l’impatto in termini di costi sociali? L’articolo pubblicato dall’Imperial College di Londra il 16 marzo scorso poneva il governo britannico di fronte a due opzioni: mantenere la linea di blanda mitigazione prospettata dal primo ministro e seguita sino ad allora, oppure intervenire con misure di soppressione. Nel caso il governo avesse proseguito nella politica di contenimento sino a lì adottata, era inevitabile il crack del sistema sanitario e l’aumento di un fattore 10 del tasso di letalità. Il governo comprese immediatamente di dover fare marcia, seguendo l’esempio di paesi come il nostro in cui erano già in vigore disposizioni che avevano portato alla riduzione considerevole della vita sociale e produttiva, e adottate misure drastiche, definite di soppressione, che tendono a portare il tasso netto di riproduzione (Ro) al di sotto di 1, per bloccare la trasmissione del virus da uomo a uomo e l’insorgere di nuovi casi. Per far ciò servono, oltre ai dispositivi normativi, azioni pubbliche che predispongano la comunità e i suoi componenti alla collaborazione, un’adeguata educazione alle misure di prevenzione individuali e il loro rispetto.

Le curve della progressione epidemica hanno un differente andamento a seconda delle reazioni coordinate di contrasto (Fonte Tomas Pueyo).

Un brillante analista, Tomas Pueyo, ha dato la qualifica di Hammer (martello) alla fase che i ricercatori definiscono di soppressione del contagio e di Dance (danza) a quella che dovrebbe necessariamente seguire, chiamata in letteratura scientifica di attenuazione. L’ottava lezione riguarda, dunque, la fase che ci attende e parla per l’appunto di Hammer and Dance. Essa ci parla delle politiche di attenuazione che seguono quelle di soppressione, sino a ora attuate, e che consente di allentare il lockdown, di riprendere gradualmente le attività economiche interrotte e, sul piano individuale, di tornare a una vita en plein air, avendo consapevolezza della presenza del virus nell’ambiente in misura certamente maggiore di quando il Martello ha iniziato a battere. “Chiamiamo Danza il periodo di mesi che va dalla fase del martello alla scoperta di un vaccino”, chiarisce Puyo, “perché è un periodo durante il quale le misure non saranno sempre così rigorose. A seconda di come si evolvono i casi, avremo bisogno di rafforzare le misure di distanziamento sociale ma saremo anche in grado di allentarle. Sarà una danza tra misure per riprendere con la nostra vita e per evitare una nuova diffusione della malattia”. Nel nostro paese la conosciamo come fase due ed è contraddistinta, per il momento, dall’uso del modo condizionale: anche in questo caso non vi sono certezze sui tempi, mentre gli esempi che ci vengono da altri paese, nei quali l’epidemia si è sviluppata prima, indicano quali dovranno essere i dispositivi e le precauzioni che permetteranno di danzare.

Giunge il tempo in cui alla fase del martello può succedersi quella della danza come rappresentato nel grafico (Fonte Tomas Pueyo).

Il 30 ottobre 1974, Muhammed Al incontrò George Foreman allo Stade Tata Raphaël di Kinshasa nello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo) per riprendersi il titolo mondiale dei pesi massini. Foreman era un picchiatore, Ali un ballerino. È questa l’ottava e ultima lezione, per il momento, come otto sono stati i round che occorsero alla danza per prevalere sul martello. Siamo stati martello, ora dovremo imparare a danzare.

Quando il 30 ottobre 1974 il picchiatore e il ballerino si trovarono sul ring, occorsero otto durissimi round perché la danza prevalesse sul martello.

Custoza (VR), 30 aprile 2020

Bibliografia e sitografia. Platone, Teeteto, Laterza, Bari, 2019; David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, Milano, 2014; Robert Verity, Lucy C. Okell, Ilaria Dorigatti, Peter Winskill, Charles Whittaker et alii, “Estimates of the severity of coronavirus disease 2019: a model-based analysis” in Lancet Infectious Diseases, 30 marzo 2020; Silvio 0. Funtowicz and Jerome R. Ravetz, Science for the Post-Normal Age in “Futures”, vol. 25. 7, settembre 1993; Warwick McKibbin, Roshen Fernando, “The Global Macroeconomic Impacts of COVID-19: Seven Scenarios” in CAMA Working Paper 19/2020, 29 febbraio 2020; Tomas Pueyo, Coronavirus: the Hammer and the Dance. What the next 18 Months can look like, if Leaders buy us Time, 19 marzo 2020.

IMMOBILITA’

di Yasmina Melaouah, traduttrice

Pensavamo fossero i bar e i cinema, pensavamo fossero gli abbracci degli amici, quelli dati quasi sovrappensiero salutandosi dopo una serata insieme, pensavamo fossero le librerie, le pasticcerie o i parrucchieri. Pensavamo, certo, fossero i nostri cari che non possiamo vedere.
Non era proprio quella la prima cosa che ci ha dato una stretta al cuore, il 9 marzo. E invece poi, molto presto, è stato il camminare quello che molti di noi hanno sentito come la perdita più difficile. Le gambe che ci portano giù dalle scale, forse dopo ore al tavolo, a casa o in ufficio, che prendono un passo saldo varcando il portone mentre il corpo accoglie l’aria e la luce di fuori. Le gambe che vanno, da qualche parte o da nessuna parte, a fare la spesa o a salutare un ginko in un parco, che scendono allegre le scale della metropolitana verso un cinema, un’amica, un qualche evento che – ora lo sappiamo – è solo la scusa per far felici loro, le gambe. Le gambe che appena possono – una domenica, un pomeriggio rubato – scappano dalla città verso qualche sentiero, una spiaggia, un bosco.

Notturno dalle colline veronesi (Foto di Cesarina Amatore)

Il 9 marzo di colpo abbiamo scoperto l’immobilità. Certo, qualcuno fa dieci piani di scale su e giù, qualcuno fa un paio di chilometri al giorno girando lungo il perimetro del salotto, ma è un muoversi fermo, senza gioia. In quella stasi però abbiamo imparato la pazienza, e con la pazienza la possibilità di trasformare l’immobilità in uno strano dono. Fermi, attorniati dal silenzio, qualcosa in noi si è posato come si posa il fango nell’acqua torbida facendola a un tratto miracolosamente limpida. È venuta così l’opportunità di un piccolo esercizio di scoperta: ci siamo tuffati in quella limpidezza immobile per esplorare forse anfratti di noi finora sconosciuti. Immobili, vediamo con più nitidezza il movimento di cose impalpabili, moti del cuore, piccoli desideri, le cose davvero preziose e le cose che davvero ci mancano. Non erano i bar né i cinema, ho visto in fondo alla mia immobilità, a mancarmi era il glicine che ora sboccia lontano dal mio sguardo, era la carezza del sole primaverile, era il conforto della natura. E ho visto anche, però, quale meravigliosa macchina è l’essere umano, capace di adattarsi e di coltivare a volte una bellezza millimetrica. Tutto, in questa immobilità, può essere un dono: la tenerezza delle luci dei palazzi – mai così tante luci, la sera, siamo tutti a casa – la vicina di fronte che vedo leggere sul letto con il gatto acciambellato ai piedi, il cicaleccio umano che sale dal cortile, persino il silenzio sospeso dell’ora difficile del tardo pomeriggio, quando tutto il paese aspetta il quotidiano bollettino dei contagi e dei morti.
C’è qualcosa di indecente nel fare l’elogio di questo tempo sospeso, che è un tempo di sofferenza e di paura. È un tempo bruttissimo, ma imparare a starci forse serve a qualcosa. Anche per dopo, quando torneranno le gambe.

Milano, 8 aprile 2020

IMMUNIZZAZIONE

di Pier Luigi Tregnaghi, medico sportivo

Mai la parola Immunizzazione è entrata nel vivo del vocabolario quotidiano come in questi tempi. Lo scorso anno era emersa la questione del rifiuto, dal fronte dei cosiddetti “No vax”, delle vaccinazioni prescritte in età pediatrica. Quel movimento aveva preso voce ed era stato supportato anche da scelte decisionali assunte da alcune regioni italiane. È pur vero che, nella prospettiva di realizzare una immunità di gruppo, non è necessario immunizzare tutti gli individui di una popolazione al fine di interrompere la trasmissione di un agente infettivo, laddove esista un’alta percentuale di soggetti immuni . Ma è anche auspicabile che una valutazione di merito sulla obbligatorietà del vaccino spetti, fatte salve alcune deroghe in casi particolari, ad una autorità nazionale, allo scopo di evitare incongruenze anche fra regioni limitrofe. L’esplosione
poi della epidemia e della pandemia attualmente in corso, ha fatto decollare l’enfasi sul sistema immunitario.
Tutta la comunità scientifica si è mostrata sorpresa dalla aggressività di un agente infettante che ha travalicato ogni benevola aspettativa di virulenza. Ho sfogliato in questi giorni l’edizione del 1995 di un noto e apprezzato manuale di Medicina Interna, curato per la parte di Infettivologia dal prof. Anthony Fauci, uno dei massimi esperti mondiali e consulente di alcuni presidenti americani, fra cui Donald Trump. Il gruppo dei Coronavirus è trattato assieme ad altri virus che colpiscono prevalentemente il tratto respiratorio superiore. Tuttavia, a conclusione della descrizione, viene sottolineato che «rimane da chiarire quale sia il ruolo complessivo dei Coronavirus nelle malattie delle basse vie respiratorie ».

Immunizzazione attraverso vaccino

A quei tempi dunque, non se ne sapeva molto di più sulle gravose ripercussio ni polmonari del coronavirus , ma oggi, dopo una pandemia di tale portata e una volta superata la fase di emergenza, bisogna cercare di correre ai ripari. E un’ altra questione che è rimbalzata sulla bocca di tutti è quella di sviluppare la ricerca per sintetizzare un vaccino ad hoc. Si dà quasi per scontato che la vaccinazione e la immunizzazione siano processi equivalenti. Ma il vaccino costituisce una modalità per giungere ad uno stato di immunizzazione attiva con la produzione di anticorpi specifici (protettivi), con l’obiettivo di raggiungere una protezione permanente. Mentre la immunizzazione passiva, attraverso la somministrazione di sostanze esogene come il sangue di un donatore ricco di anticorpi specifici , induce una protezione limitata nel tempo. Tutti coloro che hanno superato l’infezione da Coronavirus sviluppano una immunità che viene determinata nel siero sulla base della concentrazione degli anticorpi protettivi (le immunoglobuline IgG). Tuttavia, avendo a che fare con un virus relativamente nuovo per manifestazioni di questa rilevanza, la comunità scientifica non è ora in grado di prefigurare per quanto tempo possa persistere una immunizzazione. E questo sarà uno dei campi di studio dei prossimi mesi, assieme alla corsa a sviluppare un vaccino destinato a coprire quantomeno quei soggetti maggiormente esposti , che non sono venuti a contatto con il virus e quindi non immuni.
Buon lavoro, allora, al nostro sistema immunitario e agli abitanti del nostro pianeta, chiamati a rimboccarsi le maniche per rianimare un tessuto socio economico incrinato dal passaggio di questa tempesta virale.

Colognola ai Colli (VR), 10 aprile 2020

IMPRESA

di Marcello Cutino, imprenditore

Già da tempo le imprese, soprattutto le piccole e micro imprese che caratterizzano in gran parte il tessuto industriale dell’Italia sono state abituate ad affrontare il mercato in un continuo saliscendi come il movimento delle onde. La sovra produzione, la concorrenza sempre più aggressiva di un mondo globalizzato, la polarizzazione verso mercati emergenti hanno reso sempre più fragile il mercato scatenando tra i paesi politiche protezionistiche vere e proprie guerre commerciali. Le imprese, in questi anni, si sono attrezzate lavorando sull’efficienza  la flessibilità e la duttilità, caratteristiche imprescindibili per affrontare gli alti e bassi di un mercato che non vede più strategie di lungo periodo ma di breve e brevissimo tempo. In questo contesto già di per se stesso tumultuoso si inserisce l’onda anomala del Coronavirus che per destino nasce in Cina, il paese che influisce maggiormente sia per la produzione industriale di componenti e prodotti destinati al mercato globale, sia per il suo stesso mercato tra i più importanti al mondo.

Area industriale di Arzignano (Vr)
IL Covid-19 ha innescato un’onda anomala nel ciclo economico

Questa onda anomala si è tradotta in conseguenze tangibili per le imprese già nel mese di gennaio quando vi è stata la serrata della provincia di Hubei, tra l’altro tra le più produttive della Cina , quando si è iniziato a percepire la mancanza di forniture essenziali per i processi produttivi di molte aziende sparse per il mondo, ma ha anche condizionato il mercato quando nelle principali fiere internazionali di gennaio e primi di febbraio in Europa  si è assistito l’assenza dei visitatori asiatici e americani , i primi legati alle disposizioni governative i secondi per la mancanza di coperture assicurative nei confronti dei loro viaggi per la presenza del Coronavirus. Ciò ha determinato un indubbio danno nei confronti delle migliaia di piccole medie e grandi  imprese che avevano investito in queste fiere con l’inaspettata mancanza dei principali clienti internazionali.
L’onda poi cresce purtroppo per noi Italiani, quando diventiamo il secondo paese più colpito al mondo,  con i decreti che via via restringono le attività per poi farle cessare ad esenzione di quelle strettamente necessarie . A supporto di questa serrata generale, il governo per ora a messo a disposizione due strumenti per le imprese: la cassa integrazione in deroga, la moratoria sui mutui e le scadenze fiscali, per un periodo di nove settimane la prima e di sei mesi la seconda.
Si parla  di eventuali finanziamenti , ma per ora quelli che offrono gli istituti di credito sono mutui a tasso agevolati garantiti dallo stato all’ ottanta per cento che comunque vengono erogati secondo un istruttoria dove i contorni di necessità sono tutti ancora da definire.
Quest’onda anomala , sta già colpendo duro gran parte dell’Europa e del mondo , e il Coronavirus come l’onda anomala conosce una velocita che pare non sia quelle delle decisioni e delle controversie sul finanziamento Europeo. C’è da augurarsi che l’Europa reagisca a questo scenario sia in termini finanziari a supporto dell’impresa sia soprattutto con una visione del nuovo mercato globale, garanzia questa di vero investimento per costruire un  nuovo scenario promettente. Se ciò non dovesse avverarsi conteremo oltre ai morti anche il triste elenco delle imprese fallite. 

Marano di Valpolicella, 5 aprile 2020

Inferno
Comedia, 1304-1307, Dante Alighieri

di Mirco Cittadini, regista e divulgatore dantesco

La conosciamo tutti la Commedia. Siamo tutti pazzi del suo regno più fetido. Ne conosciamo a memoria i versi. A dire Inferno, subito vengono in mente: le tre fiere, lasciate ogni speranza voi ch’entrate, gli ignavi (che non è un termine usato da Dante), non ti curar di loro ma guarda e passa, colui che per viltà fece il gran rifiuto, Caron dimonio dagli occhi di bragia, stavvi Minòs orribilmente e ringhia, Paolo e Francesca (e il celeberrimo Amor c’ha nullo amato amar perdona, qualsiasi cosa esso voglia dire), pape Satan pape Satan aleppe (l’abracadabra più diabolico mai pronunciato), poi abbiamo Ulisse (e di nuovo rilanciamo con un “fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”), il conte Ugolino e siamo appagati.

Domenico di Michelino, Dante, Duomo di Firenze, 1465

Dante però puntava ad altro. Puntava in alto. A partire proprio dal basso. In questi tempi strani e stranianti, dove la nostra quotidianità è limitata e i nostri punti di riferimento sono incerti e vulnerabili, forse sentiamo nostro il disorientamento di Dante “nel mezzo” di una selva oscura. Perché ogni viaggio iniziatico parte necessariamente da una crisi. E questo viaggio è fatto di abissi (Inferno), metamorfosi (Purgatorio) e integrazioni (Paradiso). Dante, generosamente, (non a caso il suo nome significa “colui che dona”) offre a noi un manuale pratico di migliaia e migliaia di terzine, un libro per scendere in profondità dentro noi stessi, per “fotografare i propri inferni, i propri purgatori, per riconoscere i propri paradisi”. Incipit comoedia Dantis Aligherii florentini natione non moribus: così scriverà il poeta fiorentino in una lettera a Cangrande della Scala. La sua opera è un’opera comica, una “comedìa”. Quindi questo poema racconta di un viaggio che si avvia a partire da una materia “paurosa” per poi elevarsi ad una dimensione “desiderabile e gradita”. Questo viaggio comporta una discesa, un inabissarsi dentro le profondità della Terra, fino al suo centro (Inferno), per poi risalire, lungo un asse verticale, per riemergere agli antipodi del punto di partenza (Purgatorio) e da qui intraprendere una vertiginosa salita fino ad arrivare alla Visione di Dio (Paradiso).

La Commedia ci aiuta a trasformare gli ostacoli in risorse, in energia positiva e propulsiva. Ci spinge a “muoverci”. Perché nel movimento c’è il nostro essere felici. Non a caso la Commedia terminerà con “l’Amor che move il sole e l’altre stelle”. E come può essere vista per noi la felicità in questo tempo in cui ci sembra di vivere in uno “stato di eccezione”? Quali finestre possono aprire per noi gli endecasillabi danteschi? Come può risuonare in noi l’esperienza di un uomo qualunque che muore e risorge per tutti noi, proprio come il Cristo? La risposta implicita in Dante è quella di “fare anima”. Capire dove siamo. Scendere per risalire. Entrare nei nostri abissi e ritrovarne la luce. Capire che quegli abissi sono scala per cambiare. “Trasumanar”, dirà Dante: andare oltre i nostri limiti.  La rinascita, la risalita, consiste nel fare questo, dentro e fuori di noi.

Verona, 10 aprile 2020

Bibliografia. Leonardi A.M. Chiavacci (2001), Commedia, Zanichelli, Bologna; Mazzarella A. (2005), Alla ricerca di Beatrice. Dante e Jung., Edra, Milano; Vacchelli G. (2014), L’ attualità dell’esperienza di Dante. Un’iniziazione alla Commedia, Mimesis, Milano. Sitografia, vedi https://nellabirintodellacommedia.wordpress.com/

INTIMITA’

di Marta Alberti, filosofa

Luogo interiore fatto di silenzio e profondo rispetto per se stessi, che l’isolamento e la reclusione domestica – messi in atto per buonsenso da alcuni o accettati a forza di decreti da altri – potrebbero aver reso un luogo nuovamente accessibile a tutti. Ma sarà poi così? Difficile a dirsi, perché l’intimità come dimensione interiore è invisibile e la sua ricerca porta a raccoglierci e a cercare ascolto al riparo dall’esposizione alla sguardo sociale. S’intuisce, però, che almeno due condizioni, di questi tempi, minacciano il raccoglimento intimo: in primo luogo, la reclusione nelle case, che spesso significa essere costretti a condividere con i familiari ogni singolo istante della giornata; in secondo luogo, l’isolamento sociale, che viene compensato dal massiccio ricorso alla rete e ai social media.

Edward Hopper, Morning sun, 1952

Il forzato ottimismo dei primi giorni di isolamento – “Costretti a stare a casa, torneremo a starci vicino e a parlarci, recuperando ciò da cui la normale routine ci aveva distratto”; “Quanto sono preziose le tecnologie che ci permettono di comunicare anche a distanza” – preannunciava involontariamente scenari per niente idilliaci. Quanti, ad esempio, sopporterebbero anche solo l’idea di dover essere confinati alle sole relazioni familiari, mettendosi nei propri vecchi panni di adolescenti? E quanti, pur sentendo la mancanza delle relazioni sociali, non hanno comunque avuto la tentazione di spegnere il cellulare per non essere invasi dal flusso continuo di messaggi, foto, video? Di fronte ad un’emergenza che rende tutti più vulnerabili, nell’intimo si agitano paure, inquietudini, speranze, intuizioni, pensieri, desideri e un grande senso d’incertezza per il presente e per il futuro. Vissuti confusi e intrecciati, che solo in un’intima conversazione potrebbero essere propriamente espressi e affrontati.

Verona, 26 marzo 2020

IO QUINDICENNE STUDENTESSA ON LINE

di Anita, prima liceo classico

Ultimamente si sta parlando molto di “didattica a distanza”, si stanno chiedendo pareri a psicologi, professori e genitori… Ma che cos’è la “didattica a distanza”, cosa implica e che effetti ha su noi studenti? La didattica a distanza è un metodo di insegnamento messo in atto in questo periodo dai professori di ogni grado per far fronte alla lunghezza della sospensione delle attività scolastica causata dall’emergenza COVID19, mediante l’uso di applicazioni del telefono o computer con cui i ragazzi possono seguire lezioni online, svolgere compiti o essere valutati in verifiche scritte o orali. Molti professori ed esperti si sono pronunciati in merito, ma nessuno ha mai chiesto l’opinione sincera degli studenti; per quanto riguarda il punto di vista di quest’ultimi, la situazione che stiamo vivendo nell’ambito didattico non è considerata una delle migliori. Una ragione di questo disagio percepito tra gli studenti è dovuta alla mancata padronanza da parte del corpo docente delle metodiche dell’insegnamento a distanza e della didattica multimediale. Per esempio, si riscontra una difficoltà da parte dei consigli di classe a trovare una piattaforma unica per tutte le materie, poiché i docenti non hanno una conoscenza approfondita e condivisa dell’uso delle applicazioni come Meet, Zoom, Cisco Web Meeting ecc., anche perché, non essendo nativi digitali come noi ragazzi, si sono trovati impreparati davanti a questa necessità. Inoltre, i professori hanno difficoltà a trovare metodi di verifica efficaci: specie nelle verifiche scritte sono costretti ad inventarsi modi originali – spesso con l’intento principale di evitare le copiature – che si rivelano però svantaggiosi per gli studenti e poco validi dal punto di vista dell’effettiva valutazione dell’apprendimento.

La “didattica on line” non è “didattica a distanza”

Un metodo molto usato, per esempio, è quello della riduzione del tempo per svolgere la verifica, che può passare da cinquanta a trenta o addirittura venti minuti. Questo metodo, pur abbassando il numero di scopiazzature nelle verifiche, si rivela inadeguato allo scopo della valutazione, in quanto non permette di verificare l’effettivo apprendimento, poiché non rispetta i tempi e gli stili di apprendimento individuali, penalizzando in particolare coloro che hanno bisogno di più tempo per pensare alla risposta ad una certa domanda. Sempre per quanto riguarda le difficoltà nella valutazione a distanza, i professori, specie nelle verifiche orali, tendono a dare voti inferiori a quelli che darebbero in una situazione normale a scuola, perché spesso sono condizionati dal dubbio sull’onestà dell’interrogato. D’altronde ci sono anche molti studenti che cercano di imbrogliare nelle prove, attaccando vicino alla webcam fogliettini, bigliettini, schemi oppure tenendo aperti libri e quaderni ben nascosti dalla visuale limitata dei professori, facendo addirittura finta di non sentire le cose dette dai professori per guadagnare tempo. Inoltre, per quanto riguarda le lezioni online, si riscontrano altrettante problematiche. La spiegazione del professore in genere risulta poco efficace e non del tutto soddisfacente rispetto ad una lezione frontale in classe, proprio a causa dell’instabilità del mezzo di comunicazione utilizzato; talvolta ciò è anche dovuto alla disomogeneità nella dotazione degli apparecchi tecnologici per la difficoltà di alcune famiglie a garantire una connessione veloce e attrezzature adeguate. Non va nemmeno dimenticato che in questo periodo di isolamento forzato anche i genitori sono costretti, per quanto possibile, a lavorare a casa con le stesse tecnologie e negli stessi orari. Spesso si sentono dire frasi come: “I professori fanno troppe video lezioni” o “I professori non dosano la quantità di compiti che ci assegnano per casa”. La quantità di lavoro svolto a distanza ha infatti un forte impatto sulla salute degli studenti: alcuni sono stati costretti a comprare occhiali per la prolungata esposizione al computer o al telefono. Molti hanno crisi d’ansia o di panico a causa di questo tipo di didattica. Tutto questo ci porta ad una domanda: è giusto anteporre lo svolgimento di una lezione al benessere psico-fisico dello studente? Alcune volte sento da parte di esperti, professori o autorità in generale il pensiero che stare a casa possa portare i ragazzi a relazionarsi di più con i genitori, creando un rapporto che sarebbe stato impossibile in un periodo “normale”. Certo, in un primo momento potrà sembrare così… Ma ore ed ore costretti ad una convivenza forzata potrebbero risultare addirittura deleterie al rapporto tra genitori e figli; Nel lungo periodo sicuramente l’obbligo di stare a casa porterà ad avere degli effetti positivi sull’ambiente: meno emissioni di CO2 nell’aria, meno soldi spesi in carburante. Per alcuni ambiti produttivi, inoltre, in questo periodo è stato sperimentato lo smart working, una modalità di lavoro flessibile ed innovativa che potrà essere mantenuta anche durante il ritorno alla normalità. Nonostante ciò, penso che per noi studenti siano maggiori gli aspetti negativi che quelli positivi a proposito della didattica a distanza e non ci resta che sperare che questa situazione possa durare il meno possibile.

Villafranca, 15 aprile 2020

IO UNDICENNE RECLUSO DOMESTICO

di Federico, studente di prima media

Prima della reclusione mi alzavo alle 6:45 e facevo colazione, uscivo di casa alle 7:30 a seconda se c’era bel tempo o brutto andavo a scuola in bici o in macchina. La scuola iniziava alle 7:50, avevo sei ore al giorno divise da una pausa di 20 minuti per la ricreazione alle 10:30. A ricreazione scendevamo in cortile a giocare. La scuola finiva alle 1:30 poi si tornava a casa. Pranzavo e mi rilassavo un’oretta davanti alla TV o alla PlayStation. Poi a seconda di cosa dovevo fare il pomeriggio facevo subito i compiti o andavo a fare un giro in bici. Due giorni alla settimana alle 16:30 uscivo di casa per andare all’allenamento di BMX che iniziava alle 17 e durava un’ora e mezza. Per le 19 ero a casa, doccia veloce, cena per le 19.30 poi giocavo un po’ e per le 21 andavo a letto. Quando non c’era allenamento, finiti i compiti, mi incontravo con i miei amici oppure andavo a fare un giro in bici, nel caso nessuno delle due fosse possibile mi inventavo qualcosa da fare in casa. Il papà andava a lavorare a Padova quindi usciva alle 7 la mattina e tornava a casa alle 19.30 la sera, riuscivo a passare un po’ di tempo con lui solo nei fine settimana.

Libertà domestica

Da quando è iniziato il periodo di reclusione c’è stato un primo momento di assestamento e adesso finalmente la mia routine è abbastanza regolare. La cosa bella è che mamma e papà sono con me tutto il giorno. Mi alzo la mattina alle 8:30 faccio colazione mentre mi guardo qualche video, dalle 9 inizio le lezioni on line, ho tre lezioni al giorno di 45 minuti l’una con una pausa di 15 minuti tra una lezione e l’altra. Quindi dalle 9 alle 11.45. Appena finito vado in cortile a correre o in bici, verso le 13 pranziamo, poi, se il tempo lo permette ci sediamo sul balcone a leggere, giocare o fare i compiti. Per le 16 torniamo in cortile per un po’ di sport, corriamo, giriamo in bici… poi si sale, doccia e mi invento qualcosa da fare fino a ora di cena, qualche invenzione, giochi vari o una videochiamata con i miei amici. Per le 19.30 si cena e poi gioco fino alle 21:30 quando vado a letto. Cosa mi manca? Vedere i miei amici e fare qualche giro fuori, per il resto non mi lamento. La scuola così mi piace molto!
La vera differenza la fanno i fine settimana, eravamo sempre in giro, passeggiate, giri in bici, pic-nic con gli amici, piscina… adesso sono giornate come le altre solo che non c’è scuola al mattino…
Federico Zanocco, studente di prima media, Verona, 10 aprile 2020

Verona, 7 aprile 2020

ISOLAMENTO

di Tommaso Tuppini, docente di filosofia univr

«Il romanticismo della quarantena è un privilegio di classe!» dicono alcuni studenti. Slogan efficace e collaudato di chi impara velocemente le frasi dei professori. Però, durante l’isolamento pestilenziale del 1665 il ventitreenne Isaac Newton, seppellito nella tenuta di Woolsthorpe, elaborò la teoria dei colori, scoprì il calcolo differenziale, concepì l’idea di gravitazione universale. Un colpo di forbice aveva reciso le pastoie del College – metonimia del mondo – e aveva sottratto il giovane studioso alle attenzioni interessate o disinteressate degli altri che, fino a prova contraria, sono l’inferno. La differenza è che oggi non sono gli scienziati ad avvantaggiarsi dell’isolamento – il loro lavoro è troppo complesso e gregario – ma gli scrittori, gli unici che, insieme ai ciclisti, comprendono l’ebrezza della fuga. Se la stanza tappezzata di sughero della Recherche e la baita di Essere e tempo ci fanno venire in mente le colpe di classe è perché nell’animo siamo rimasti preti. «Ma hanno chiuso in soffitta anche me. Che c’entro io? Voglio tornare a ridere, e correre, e danzare!» Come dare torto? Il punto è che purtroppo non basta essere i soli a essere soli (isolamento relativo), bisogna che tutti lo siano (isolamento assoluto), anche quelli che della solitudine non sanno che farsene, perché la nostra agitazione feriale disturberebbe i pochissimi per i quali lo scisma è destino. A questo servono le leggi marziali così difficili da mandar giù.

La romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe

Ci hanno tolto l’aria. In nome di cosa? Il conatus sese conservandi? Boh, se così fosse, il rimedio è peggiore del male, visto che in casa stiamo per scoppiare. Inutile indorare la pillola, il domicilio coatto a noi non serve a niente. Straordinaria eterogenesi dei fini, idiozia di Stato che alimenta il fuoco dello spirito: comandato a tre miliardi di persone per il “bene comune”, fanno buon uso dell’isolamento quelli la cui esistenza è una replica al silenzio e al vuoto, e si contano sulle dita di due mani. Non sappiamo dove sono e cosa facevano prima, ma la loro gioia ha bisogno della nostra noia e senza il deserto non possono dare l’assalto al cielo. Non sappiamo che volto hanno ma loro conoscono il nostro sacrificio e mai, neppure sotto i faraoni, così pochi dovettero così tanto a così tanti, e la salute non c’entra. Accecati dalle lacrime, non abbiamo idea di quali tesori stanno accumulando nei pozzi, forse non lo sapremo mai. Ma che importa? Quando penso a loro mi sento subito meglio, come quando ascolto Simon e Garfunkel, People writing songs that voices | never share, oppure leggo i versi del grande sequestrato che in una prigione di due metri per due poteva soltanto sbattere le palpebre: Sotto nuvole bianche, cielo di Pisa | da tutta questa bellezza qualcosa deve uscire. Dal carcere di questo mondo qualcosa uscirà che il chiasso di prima non poteva immaginare.

Verona, 21 aprile 2020

Bibliografia. E. Pound, Canti pisani, tr. it., Garzanti, Milano 2011

LAZZARETTO

di Guido Vittorio Zucconi, docente di storia dell’architettura, IUAV

La parola indica un luogo chiuso e ben delimitato ove possono essere tenute in isolamento sia merci sospette, sia soprattutto persone malate o potenzialmente contagiose. L’idea si consolida in tempi di grandi epidemie di peste, soprattutto nel corso del Trecento; se in precedenza esistevano altre forme di isolamento spesso gestite da religiosi presso i conventi di appartenenza. A quanto ci dicono i documenti, la prima struttura dedicata nasce  tra il XIV e il XV secolo, materializzando una duplice motivazione: da un lato isolare gli appestati, in modo da limitare il contagio, e dall’altro impedire che il male possa attecchire e quindi diffondersi. Se il primo dei due obiettivi riguarderà tutti i centri urbani, il secondo coinvolgerà soprattutto le città di mare, le più esposte alle epidemie, per i continui contatti  con quei paesi da cui proviene il male o dove spesso il morbo è endemico. Si procede, in questo caso, a trasferire in una struttura ad hoc quella pratica di isolamento che prima veniva attuata nelle navi costrette a restare alla fonda per almeno quaranta giorni (ovvero in quarantena).
Venezia è forse la prima a tramutare l’idea in realtà all’indomani delle grandi epidemie di peste del XIV secolo. Nel 1423 il Senato veneziano istituisce quello che forse possiamo considerare come il primo lazzaretto, situato nell’isola di Santa Maria di Nazareth non lontano dalla bocca di porta ovvero dall’accesso al mare. Dalla corruzione di Nazareth nasce probabilmente la parola lazzaretto che va a definire in realtà un duplice sistema creato per l’occasione: da un lato si tratta di un ospizio concepito per confinare gli appestati in attesa che passino a miglior vita, dall’altro c’è un attrezzatura di tipo preventivo la quale serve ad isolare merci e persone provenienti da lontano: come tali, foriere di possibili contagi.

Il Lazzaretto di Verona, sulla riva destra dell’Adige

Nel corso del Cinquecento, il lazzaretto assume una forma definita: si tratta di una grande quadriportico che ha al centro un edificio di spicco (spesso legato al culto religioso). L’insieme corrisponde a quello stesso spazio che, parlando di Milano e dell’epidemia di peste del 1630 Alessandro Manzoni ha descritto in alcune, memorabile pagine de I promessi sposi. A partire dal XVI secolo, vedremo sorgere strutture simili in tutti i maggiori centri urbani ma soprattutto nelle città interessate da traffici marittimi.
 Ovunque, il lazzaretto è di norma collocato fuori dalla mura; in particolare, nel caso delle città portuali, l’edificio è posto a ridosso ma non all’interno dello scalo con forme che spesso devono adattarsi alla scarsità di spazio. Nell’uno e nell’altro caso, la posizione defilata non è ovviamente casuale: serve ad evitare (o per lo meno ad attenuare) le occasioni di contagio; in tempi di guerra, la struttura serve ad ospitare i feriti.
Ormai, nelle città non-marittime come la stessa Milano, il termine ha assunto il significato di luogo destinato ad ospitare ed isolare gli appestati, quasi un sinonimo di lebbrosario: da qui la convinzione che il termine “lazzaretto” derivi da Lazzaro, l’appestato par excellence, descritto nei vangeli e miracolato da Gesù Cristo. Da Lazzaro a San Lazzaro il passo sarà breve, come avverrà in tutte le città situate lungo la via Emilia. Oggi, sul luogo dell’antico ospizio per appestati, sorge un quartiere che reca quel nome: lo troviamo invariabilmente collocato nella parte orientale della porzione extra-moenia.

Venezia, 11 aprile 2020

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Lacrime amare di Petra von Kant (le)
Rainer Werner Fassbinder, 1h 24′, 1972

di Alberto Battaggia, docente e giornalista

E’ possibile dormire, svegliarsi, fare all’amore, cibarsi, truccarsi, odiare, parlare, ascoltare, lusingare, comandare, umiliare, soggiacere, rimpiangere, piangere (in poche parole: vivere) in pochi metri quadri? Quali supplizi e piaceri riguardano le coppie in amore confinate nei microappartamenti – sala unica multifunzione più servizi- del lavoro precario nel tempo del Coronavirus? Petra von Kant li conosce. Nel claustrofobico teatro filmico di Rainer Werner Fassbinder, rigorosamente aristotelico nel rispetto delle canoniche unità, tutto accade in una sola stanza, sopra il giaciglio matrimoniale della dura protagonista. Uno smart living ante litteram. Nei primi 22 minuti Petra apre gli occhi, telefona alla mamma, sorride sicura, ipocrita, borghese; accende la sigaretta, indossa la vestaglia, fa girare The Platters – Smoke Gets In Your Eyes, mette la parrucca, si contempla allo specchio, balla languida con la soggiogata segretaria Marlene; telefona al boss della moda: “questi maiali”, “te li ricordi tre anni fa?, neanche fosse stata merda”-; apre la porta: “carissima”…

Il trucco
Karin
La passione
Quello che importa

Entra l’amica Marlene (che tiene il soprabito addosso): ha saputo del marito, “sei troppo dura”- dice lei – “forse non sei abituata alle donne che pensano”…ribatte Petra. Al 23 esimo minuto, Krudelia inizia a truccarsi. Non si è mai lavata la faccia. Il rimmel, le ciglia finte, si sovrappongono alle scorie del sonno negli angoli degli occhi; il fard solleva la cute affaticata dalla notte (Maria Antonietta?). Irritante, decadente, perversa. Entra Karin (la Shygulla, mai così invereconda) proletaria in ascesa, occasionalmente lesbica. “Ha tentato con la violenza – spiega Petra – e io l’ho lasciato fare, anche se mi faceva solo schifo ormai…puzzava, puzzava di uomo, sai come puzzano gli uomini…”. E ancora. Si strofinano, si scrutano, si amano, si vezzeggiano, si addormentano, si svegliano. Si provocano. “Basta, non possiamo pomiciare tutto il giorno”- dice  Karin crudele- “Ma io ti amo” ribatte Petra. Non è quello che importa?

Verona, 1 aprile 2020

LAVAGGIO RITUALE DELLE MANI

di Bruno Carmi, studioso di ebraismo

Basilare norma igienica, indicata per la sua utilità nella prevenzione sin dall’antichità, purtroppo non ancora così diffusa come dovrebbe. Basti pensare all’ora del pranzo in mense aziendali o ristoranti dove spesso al tavolo le persone si siedono senza prima aver provveduto alla pulizia delle mani o nei bagni degli autogrill ove troppi utilizzano i servizi senza lavarsi, né prima né dopo, le mani. E quelle mani poi si posano non solo su maniglie, bicchieri e tazzine ma su prodotti, pulsanti e campanelli, sui quali lasciano tracce e batteri per tutti noi.

L’importanza del lavaggio delle mani costituisce uno dei fondamenti della prevenzione del contagio
(Illustrazione di C.J. Robinson)

In passato sono stati tentati vari esperimenti come quello di manifesti di promozione dell’igiene personale che citavano frasi di autori famosi in favore del lavaggio delle mani. Uno studio inglese del 1967 ha dimostrato che hanno avuto una qualche influenza, perché nei luoghi ove erano affissi i cartelli il 67% delle donne ed il 50% degli uomini si lavavano le mani con acqua e sapone, rispetto al 52% delle donne e 20% degli uomini nei bagni che ne erano privi.
L’OMS ha istituito, il 5 maggio di ogni anno, la Giornata mondiale del lavaggio delle mani proprio per ricordarne l’importanza nella prevenzione di infezioni trasmissibili. Un semplice atto da compiere più volte durante la giornata, un rituale antico, che salverebbe ogni anno migliaia di vite. La pulizia costante e seria, l’igiene personale porterebbe ad una importante diminuzione della crescita batterica come dimostrano tantissimi studi.

Per quanto tempo deve durare questa operazione?  Penso che risponda al vero quanto dice il protagonista del film di Woody Allen Basta che funzioni. Il protagonista, Boris Yellnikoff, pensa che il tempo giusto per lavarsi le mani sia dettato dal tempo necessario per ripetere due volte, mentre la si canta, la strofa degli auguri per il compleanno: “Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri caro Boris, tanti auguri a te…”

Scritto dal Woody Allen alla fine degli anni Settanta, Whatever Works
(Basta che funzioni) ha potuto essere girato solo nel 2009.

Il lavaggio delle mani è ritualizzato anche in diverse religioni. Per quanto riguarda la confessione ebraica, la mia, occorre premettere che secondo la tradizione, ogni atto è preceduto da una benedizione. Per quanto riguarda il requisito del lavaggio delle mani – Netilat Yadaym (letteralmente elevare le mani) – da compiersi prima di ogni pasto, va ricordato che non nasce in origine come norma igienica, ma è collegato al ricordo del rituale che il Sommo Sacerdote eseguiva nel Santuario di Gerusalemme (Bet Hamikdash) prima delle funzioni sacrificali. Ma quella del pasto non è l’unica occasione per la quale è previsto il lavaggio delle mani; la tradizione lo prescrive tra i primi atti da compiere appena alzatosi dal letto ogni mattina e in particolari occasioni come, dopo la visita, all’uscita dal cimitero. La tradizione riferisce anche “che il lavaggio delle mani sia stato imposto dal re Salomone, come una forma speciale e aggiuntiva di pulizia e consacrazione di quella parte del corpo umano che di più ha contatto con l’esterno. Dai sacerdoti questo rito è passato ai Farisei, che l’hanno prescritto come preliminare per l’alimentazione quotidiana; da qui noi continuiamo a farlo ogni giorno al risveglio e prima di mangiare il pane” (Di Segni).

Cartello affisso sul lavabo con il testo da recitare quando ci si lava le mani nei momenti indicati dalla tradizione: “Benedetto l’eterno Dio nostro e Dio dei nostri padri, che ci hai santificato con i tuoi precetti e che ci hai comandato il lavaggio delle mani”.

Verona, 22 aprile 2020

Sitografia. Riccardo Di Segni, Qualche nota sui simboli della Birkat Kohanim 

LAVARSI LE MANI

di Patrizia Tempia Valenta, psicologa e psicoterapeuta ASL BI di Biella

La formula “Lavarsi le mani”, se inserita su Google, ottiene Circa 284.000 risultati (0,48 secondi). Pilato (procuratore romano della Giudea dall’anno 26 al 36 d.C.), visto che in occasione della Pasqua era usanza che fosse liberato un prigioniero, lasciò al popolo la scelta tra Gesù e l’assassino Barabba. Sappiamo tutti come finì. E anche se solo Matteo (Matteo 27) riferisce che “Pilato si lava le mani davanti alla folla dicendo ‘Non sono responsabile di questo sangue; vedetevela voi’!”  tale episodio divenne leggendario e capace di entrare e restare ancor oggi nel linguaggio comune popolare con significato polisemico. Infatti, dal punto di vista dell’etica esso esprime la volontà di declinare ogni responsabilità a qualcun altro, lasciare la patata bollente in mano ad altri. Quindi evoca un atteggiamento amorale e indifferente. Non meglio dal punto di vista psicologico, che rimanda al “lavarsi” la coscienza, al non sentirsi in colpa per quello che è successo o potrà succedere. Il lavarsi le mani, da gesto comune quotidiano, diventa capace di evocazioni suggestive e popolari esprimendosi anche nei proverbi e nei modi di dire: Una mano lava l’altra e tutte e due lavano il viso: Manus manum lavat, il cui significato traslato è se tu mi fai un favore io farò altrettanto. La frase è attestata anche nel Satyricon di Petronio (XLV), con un significato piuttosto ironico. Essa viene pure usata con accezione negativa verso l’omertà, ovvero come se volesse dire “tu non dire nulla di quello che ho fatto, e vedrai che avrai il tuo vantaggio“. Nel senso che è utile aiutarsi a vicenda negli affari sporchi, e tenere nascoste le cose, tacere per un’apparenza rispettabile (la faccia).

Dobbiamo attendere Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi per una interpretazione positiva  del gesto “Renzo, dopo molte strette di mani sconosciute, s’avviò con lo sconosciuto, ringraziandolo della sua cortesia. – Di che cosa? – diceva colui: – una mano lava l’altra, e tutt’e due lavano il viso. Non siamo obbligati a far servizio al prossimo”? Vediamo qua il proverbio usato per rinforzarne un comportamento proattivo, di evocazione sicuramente religiosa che esprime solidarietà e generosità. Siamo a ridosso del capitolo sulla Peste a Milano e, come in tutte le sciagure, si esprime l’animo umano nel suo meglio e nel suo peggio, i vizi e le virtù esplodono per forgiare eroi e sciacalli.  Il lavaggio delle mani, nella peste manzoniana, diviene gesto gratuito e leggero che esprime spirito di comunità.

Istruzioni per lavarsi le mani correttamente

Anche oggi, in questa nuova tempesta epidemica, il lavarsi le mani è gesto non banale. Abbiamo imparato le dodici mosse e il tempo assolutamente necessario per un buon lavaggio delle mani. Abbiamo imparato la finalità che è quella di eliminare la flora microbica e virale transitoria e ridurre a un livello di accettabilità quella residente. I tipi di lavaggio con acqua e sapone sono tre, quello sociale, quello antisettico, e quello chirurgico. Oggi il lavaggio delle mani è raccomandato come atto preventivo primario e da fare con impegno e serietà. Abbiamo imparato che il pericolo di questa nuova era non saranno le guerre atomiche per le quali abbiamo tutti gli arsenali pieni, ma le epidemie virali, per  le quali non siamo attrezzati a sufficienza neanche nei paesi occidentali e ricchi del mondo. Nel suo piccolo, il lavaggio delle mani, che è alla portata di tutti i popoli, resterà come prevenzione primaria e gesto educativo da insegnare ai bimbi fin da piccoli, nelle scuole e nelle comunità di qualsiasi tipo. Ricordandosi della domanda che ci facevano da bambini “ Ti se lavato le mani?” Ci dovremo attrezzare per questo, dovremo abituarci a nuove gestualità, una modalità manuale diversa per compiere anche gli atti più comuni. Il “toccare” sarà modificato da pensieri che rischieranno la paranoia, la paura dell’altro, l’incubo di contagiare o di essere contagiati? Se non ci riflettiamo ora, subito, questo sarà un grande pericolo. Si propone quindi di modificarne anche il significato simbolico , il lavarsi le mani come appropriazione di gesto responsabile verso se stessi e verso gli altri, con tutto quello che la responsabilità comporta a livello etico, morale e psicologico. Io me ne lavo le mani

Biella, 7 aprile 2020

LEGGINS

di Michela Zio, giornalista di moda

Anche Pantacollant, sono la trasposizione moderna dei  fuseaux, i pantaloni elasticizzati lanciati negli anni Sessanta da Emilio Pucci e diventati di gran moda negli anni Ottanta. La versione eighties  prevedeva un elastico ad anello, solitamente dello stesso tessuto del capo, trattenuto sotto la pianta del piede. Ed è proprio nella forma a fuso che questa aderenza permetteva, l’origine etimologica dei fuseaux. Portati alla ribalta della cronaca da Audrey Hepburn prima, e da Olivia Newton John dopo, gli antesignani degli odierni leggings, sono oggi sono tra i capi più in uso nel mondo della danza. 

I leggins sono ammessi solo entro le mura domestiche

Attività sportiva domestica in leggins

Lentezza (la)
Milan Kundera, 1975

di Moira Sbravati, funzionaria pubblica

Emigrato in Francia nel 1975, vent’anni più tardi lo scrittore ceco Kundera pubblicò nella sua patria di adozione il romanzo La lenteur, prima delle sue opere scritta in lingua francese. In esso, tra i temi esistenziali a lui cari, trovava rilievo quello della velocità, con cui l’autore interpretava il proprio tempo.  Se dovessimo immaginare l’esperienza della lentezza sotto forma di tempo musicale, questo sarebbe l’andantino – tempo di questi nostri giorni dedicati al difficile compito di trovare un senso adeguato al trascorrere lento delle ore. La misura di tempo che il virus impone ci disorienta. Alla tirannia del tempo veloce si contrappone quella del tempo sospeso nell’attesa del ritorno alla normalità. Segregati nelle nostre case, ci sentiamo come quei prigionieri che, liberati dagli stretti lacci in cui sono stretti i loro corpi, percepiscono nel dolore un ritrovato sollievo per il rifluire della circolazione sanguigna. Se aveva ragione Honoré de Balzac a indicare nel tempo e nella pazienza gli elementi costitutivi del potere dell’uomo, allora dovremmo abituarci a rallentare i ritmi, dividendo in parti distinte i momenti della giornata, per dare al nuovo scorrere del tempo una forma. Poiché è all’interno di una forma che possiamo abitare il tempo.

La prima edizione italiana del romanzo, apparsa nel 1995
Ad un tempo veloce si è sostituito un tempo rallentato

L’informe è per sua natura inafferrabile, sfugge alla memoria e muore in un istante, mentre ciò che ha forma vive. Memoria e lentezza, velocità e oblio sono strettamente e misteriosamente legati in quella che Milan Kundera chiama la ‘matematica esistenziale’. Lo scrittore ne ha spiegato la sua logica, ricorrendo a un esempio quotidiano e a noi familiare: “Un uomo cammina per la strada. A un tratto cerca di ricordare qualcosa, che però gli sfugge. Allora, istintivamente, rallenta il passo. Chi invece vuole dimenticare un evento penoso appena vissuto accelera inconsapevolmente la sua andatura, come per allontanarsi da qualcosa che sente ancora troppo vicino a sé nel tempo. Nella matematica esistenziale, questa esperienza assume la forma di due equazioni elementari: il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio”.

Sapremo fare tesoro dell’esperienza della lentezza che stiamo sperimentando come conseguenza dell’epidemia? Come potremo trattenere il ricordo dell’esistenza di un altro possibile scorrere del tempo, che ci pare più adeguato alla misura dell’uomo? Semplicemente, dipenderà da noi. Anche se la riflessione con cui lo scrittore ceco conclude il suo romanzo mostra lo scenario più probabile: “Inesorabilmente figlia della velocità, la nostra epoca è destinata, in forza della citata equazione, a dimenticare sé stessa”.    

Mantova, 28 marzo 2020 

Bibliografia. Milan Kundera, La lentezza, Adelphi, Milano, 1995

LIBERTA’

di Silvia Zanolla, consulente filosofica e formatrice

L’emergenza sanitaria in corso sta mettendo le democrazie di fronte al dilemma di far coesistere due imperativi apparentemente inconciliabili: la tutela delle libertà individuali e collettive, da un lato, e l’esigenza di garantire condizioni che preservino salute e sicurezza dei cittadini dall’altro. Alla quarta settimana di quarantena la curva dei contagi sta lentamente iniziando a scendere, una conferma, secondo gli esperti, che il modello cinese si sta rivelando efficace.
A questo punto, però, bisogna capire se la Cina – il cui sistema politico è in grado di ottenere obbedienza assoluta attraverso sistemi di sorveglianza intrusivi e autoritari – può continuare ad essere un modello per le democrazie. Ed è qui che si profila l’altro esempio, quello del soft-power tecnologico sudcoreano che, in cambio della riacquisita libertà di circolare comporterebbe una rinuncia alla privacy, cosa, sostengono in molti, che di fatto già avviene continuamente per scopi ben più futili.

Marc Chagall, Passeggiata, 1917

Questa constatazione, tuttavia, non aiuta a dissipare gli interrogativi sui rischi che un sistema di controllo tecnologico porta con sé: di chi saranno le mani che gestiranno il potere invisibile che regolerà la ripresa delle attività lavorative o sociali? Di aziende private, inevitabilmente condizionate da logiche commerciali, o dei governi, mai del tutto immuni dalla tentazione di abusare del loro potere? In base a quali criteri verrà costruito l’algoritmo che, assegnando ad ognuno un codice, permetterà o meno di uscire di casa? Chi avrà accesso alle informazioni raccolte e come potrebbero essere usate al di là dello scopo dichiarato? Lo scandalo Facebook-Cambridge Analytica è un monito in tal senso.


Come sostiene il filosofo Michel Foucault il neoliberismo ha dato vita ad una forma di governo che agisce attraverso il “controllo biopolitico delle popolazioni” e una pandemia è, senza dubbio, un contesto fertile al fiorire di quello che Foucault definiva il razzismo della “purificazione permanente”. Anche quando il virus sarà sconfitto, infatti, ci sarà sempre una buona ragione per giustificare il mantenimento in vigore di un sistema di sorveglianza biomedica. Perciò, dovremmo iniziare a chiederci se, tra la segregazione ad oltranza e l’onnipresenza del Grande Fratello, non esista una terza via che, oltre a neutralizzare il pericolo immediato, tenga conto delle conseguenze che decisioni prese ora avranno sulla nostra società a lungo termine.
Se l’alternativa che ci viene posta è tra la libertà e la vita, non potremo fare altro che rinunciare, momentaneamente e in parte (così ci viene garantito), alla prima per aver salva la seconda, non fosse altro per il fatto che, persa la vita, non ci resterebbe alcuna libertà di cui godere. Ma la questione, posta in questi termini, è una falsa scelta. Forse una soluzione diversa esiste, di certo, però, non può essere trovata se l’imperativo è dare risposte il prima possibile, a prescindere dalla loro sensatezza. “La libertà è un respiro” scrive Anna Maria Ortese. Mai come in questo momento, stiamo riscoprendo quanto l’ossigeno sia vitale.

Verona, 2 aprile 2020

Bibliografia: M.Foucault, Biopolitica e liberalismo, Milano, Medusa, 2001; A.Ortese, Corpo Celeste, Milano, Adelphi, 2011

Libro contro la morte (il)
Elias Canetti, Il Libro contro la morte, (1942-1988), postumo, 2014

di Michele Bongiovanni, docente di storia e filosofia e musicologo

Il termine “libro” deriva etimologicamente dal latino “liber”, la parte interna della corteccia dell’albero su cui i primi uomini-scrittori solevano incidere i segni, le vestigia dei propri pensieri. Più profondamente ancora, “liber” è l’evoluzione della radice indoeuropea “lap” che significa “sbucciare”: quasi come se lo scrivere avesse proprio quella matericità, apticità, tattilità che ci permette di portare la corteccia “sbucciata” alla bocca e la bocca parlante alla corteccia, incidendovi con i denti la nostra mordace scrittura. Piacerebbe anche fantasticare sulla inattendibile ma suggestiva duplicità semantica del significante “liber”, visto sia come interno della corteccia sia come matrice di “libertas” (libertà), evidenziando la suprema libertà data allo scrivente/scrittore nell’emanciparsi dalle gabbie materiali del proprio corpo e dalla evanescenza dei propri pensieri silenziosi, dal “flatus vocis”.

L’edizione italiana del Libro contro la morte

Elias Canetti (1905-1994), voce letteraria tra le maggiori del XX secolo, bulgaro ebreo sefardita, Nobel 1981 per la letteratura, si accompagnò tutta la vita con un libro impossibile da terminare, un libro apotropaico nei confronti della Morte, “Das Buch gegen den Tod”. Tale opera non poteva che essere incompiuta, trovandoci “gettati nel mondo” tra Merleau-Ponty e Heidegger e prima, quindi, di rendercene conto se non proprio sul limitare dell’orizzonte delle possibilità esistenziali. Scrivere ha allora come orizzonte l’infinito, fosse anche un infinito in bozza, un infinito potenziale, kantianamente sublime. La Morte, tuttavia, è lo scacco, quanto meno nella fluidità del percorso, del flusso della Vita. Un cambio di sudario. Di certo è un salto che la natura ci fa compiere, è l’armonia dei contrari nella sua perfetta circolarità, anche se frignando ci si costruisce una fantasia di sparizione o un enorme castello di infingimenti per nascondere la voragine dell’ignoto. Siamo veramente re che si credono mendicanti, nella icastica metafora di Emanuele Severino custode dell’Eterno?

Elias Canetti (1905-1994)

In questo nostro tempo di quarantena d’emergenza, il fantasma della Morte è esorcizzabile attraverso memorie storiche che sottraggono ai nostri giorni il doloroso privilegio di allucinante novità: Costantino V, imperatore d’Oriente dell’VIII secolo d. C., definito dai contemporanei disgustosamente “coprònimo”, fanatico iconoclasta, ebbe a fronteggiare nel suo regno la tabe della peste. Narra lo storico bizantino Teofane il Confessore, nelle pagine di Canetti: «La peste a Bisanzio (746-7) durò un anno intero […] Durante la primavera della prima indizione la peste divenne ancora più virulenta e in estate imperversò a tal punto che intere famiglie si estinsero e non si trovavano più becchini […] Poiché tutti i cimiteri in città e fuori porta, e perfino le cisterne prosciugate e le cave, erano già pieni di cadaveri, non solo si prese a scavare nella maggior parte dei vigneti, ma per seppellire i morti furono utilizzati addirittura i giardini all’interno della vecchia cinta muraria». (E. Canetti, Il Libro contro la morte, Adelphi, Milano, 2017, pp. 209-210).

“L’armata della salute”, cioè i mendaci guardiani del buon costume superficiale, di cui vitupera il moralismo venefico Nietzsche nel paragrafo 47 del capitolo terzo di “Al di là del bene e del male”, condotta dal flaccido, vanesio, millantatore e frustrato intellettuale di provincia affamato di consensi di gregge, non si avvede che non ne va solo del proprio spirito critico, della propria unicità ed originalità di “persona” (maschera teatrale, in latino) ma proprio di quanto di più intimo e ineluttabile la Vita dell’Uomo deve affrontare, la Morte:  (Nel)La tragedia greca […] la morte, quella del singolo, vi ha ancora tutto il suo peso. […] Ciò che veramente si è modificato nell’epoca presente è il contesto della morte. La massificazione della morte non è più un’eccezione, tutto va a finire lì dentro […] Con tutti gli uomini che ci sono in più, devono ancora morire uno alla volta? Il punto di non ritorno sarà raggiunto il giorno in cui non verrà più permesso agli esseri umani di morire, appunto, uno alla volta”. (Canetti, cit., p. 264).
In questi giorni di tragica primavera, il terrore è la morte di massa, di quantità, da bollettino, paradossalmente in isolamento. Rivendicare una morte dignitosa non è un invertebrato abdicare alla vita bensì suggellare, in una lucida vertigine, la propria umanità.

Verona, 6 aprile 2020

Bibliografia. Elias Canetti, Il Libro contro la morte, Adelphi; Milano, 2017. Friederich Nietzsche, Al di là del bene e del male, Adelphi, Milano, 1977.

LIMITE

di Silvia Zanolla, consulente filosofica e formatrice

In situazioni limite, come quella che stiamo vivendo, spesso le cose assumono un valore diverso, talvolta opposto, a quello che avevano prima. La società in cui viviamo, afflitta da un rapporto compulsivo col lavoro e da un idea di sviluppo illimitato, ci aveva abituati a pensare ai limiti come ostacoli da superare, come stimoli per migliorare le nostre performance lavorative, fisiche, intellettive, relazionali e, persino, spirituali. Poi ad un tratto, da quando a non conoscere limiti è stata la diffusione esponenziale del virus ed è improvvisamente apparso chiaro che l’unico modo per bloccare il contagio (nel frattempo divenuto pandemico) fosse imporre severe limitazioni alla libertà delle persone, allora, il concetto di limite ha avuto un’inaspettata rivalutazione.

Il concetto di limite ha avuto un’inaspettata rivalutazione

Da più parti hanno iniziato a moltiplicarsi gli appelli al senso di responsabilità, al civismo, al rispetto delle norme che ci impongono di stare a casa. Ora chi non rispetta le limitazioni imposte viene accusato, nello sdegno generale, di incomprensibile irresponsabilità, ma per chi è stato indotto – dal funzionamento stesso della nostra società – a pensare alla libertà come assenza di limiti, non è così facile accettare, da un giorno all’altro, che il proprio bene consista nell’essere confinati entro quattro mura.

Se avessimo saputo rinunciare, per nostra libera scelta, ad affollare bar, palestre e piste da sci quando la gravità della situazione era ormai nota, forse non avremmo assisto ad un climax di decreti che le nostre libertà le limitano per legge. Ma questo, purtroppo, non è immaginabile in un Paese i cui rappresentanti invitavano a “separare l’emergenza sanitaria da quella economica”, come se non fossero le persone coi loro corpi, passibili di ammalarsi, a far girare l’economia. #milanononsiferma era l’hashtag che rimbalzava sui social media, fino a poche settimane fa, mentre l’epidemia di Covid-19 imperversava in Lombardia e aveva già causato l’isolamento di interi comuni.
L’irrompere del virus non solo impone alle nostre vite limiti fino a ieri impensabili, ma è esso stesso un limite, una linea di confine che, tracciando un prima e un dopo, ci invita a ripensare valori e priorità su cui fondare il nostro vivere individuale e collettivo.

Verona, 25 marzo 2020

Bibliografia. Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano, 2016

LOCKDOWN

di Carlo Saletti, storico e regista teatrale  

Utilizzato originariamente nel lessico anglo-americano con il duplice significato di misura di isolamento di un detenuto nella propria cella e di divieto di accesso e uscita da un edificio per motivi di sicurezza, nei mesi scorsi il termine è entrata nel vocabolario del tempo del virus per indicare i provvedimenti draconiani assunti dal governo cinese per contenere la diffusione di COVID-19.  È questa la parola, nel suo significato di ‘blocco’, che meglio di ogni altra indica la dimensione globale assunta dal contagio classificato dall’OMS pandemia. Va osservato che il verificarsi di un’epidemia generalizzata, da quando i focolai di influenza aviaria da virus sono divenuti endemici nei volatili in estremo oriente (con casi di zoonosi), rappresenta per l’OMS un rischio assai elevato e a tal riguardo, a partire dai primi anni Duemila, ha raccomandato di seguire linee guida concordate nella stesura di piani pandemici nazionali, con la consapevolezza che emergenze globali sollecitano risposte coordinate e globali.

La mappa dello stato della pandemia, ai primi giorni di aprile.

Quando, l’11 marzo 2020, il direttore generale dell’organizzazione Tedros Adhanom Ghebreyesus dichiarava che “il numero di casi di COVID-19 al di fuori della Cina è aumentato di 13 volte e il numero dei paesi colpiti è triplicato, più di 118.000 casi in 114 paesi e 4.291 persone [che] hanno perso la vita”, di fatto sanciva che quel momento era giunto. Ghebreyesus si era dichiarato pessimista sulla possibilità che l’epidemia avrebbe rallentato il suo corso, aggiungendo che “nei giorni e nelle settimane a venire, prevediamo che il numero di casi, il numero di decessi e il numero di paesi colpiti aumenteranno ancora di più”. Cosi è stato, come se una sorta di sonnambulismo avesse afflitto i decisori politici che, pur assistendo al naufragio dei paesi confinanti, si sono dimostrati restii a prendere l’iniziativa. A poco meno di 30 giorni di distanza da quella conferenza stampa, i numeri danno una consistenza precisa alla previsione che l’OMS aveva affidato ai giornalisti. All’ora attuale (le 11.10), sulla mappa elaborata dal Center for Systems Science and Engineering della John Hopkins sono indicati 184 paesi interessati, 1.485.981 i contagi accertati, 330.782 i pazienti guariti, 88.567 i decessi. In trenta giorni, la popolazione registrata come infetta è decuplicata, mentre il numero dei morti si è moltiplicato per venti. Le misure di chiusura o di blocco (verso l’esterno, di chiusura dei confini, di isolamento della popolazione nelle proprie abitazioni e quelle di chiusura delle attività produttive e commerciali, con vari gradi di intensità) sono state assunte dalla maggioranza dei paesi interessati dalla pandemia, se pure con tempi e modalità differenti. I paesi colpiti hanno via via sospeso le proprie attività, nei casi più estremi escludendo i soli settori produttivi considerati vitali. Misure di lockdown sono state prese, tra gli altri stati europei, da Francia (dal 14 marzo), Svizzera (dal 16 marzo), Spagna (dal 17 marzo), Inghilterra (dal 20 marzo).

Cronologia e tipologia del lockdown nei paesi interessati dalla pandemia al primo aprile 2020. Da sinistra in alto e in senso orario, paesi dell’estremo orientale, paesi europei, paesi americani, paesi africani (Fonte: Oxford COVID-19 Government Tracker, BBC Research)

Sull’esempio cinese relativo alla megalopoli di Wuhan, le autorità italiane, dopo aver dichiarato “per sei mesi, lo stato di emergenza sul territorio nazionale relativo al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” (31 gennaio), per prime hanno avviato e implementato misure di lockdown, assunte principalmente attraverso lo strumento del DPCM (decreto del Presidente del consiglio dei ministri): fermando gli accessi aeroportuali dalla Cina verso l’Italia (31 gennaio, 2 casi confermati di contagio); ponendo in quarantena le prime località in cui si erano manifestati focolai epidemici (23 febbraio, 150 casi); chiudendo scuole e università sull’intero territorio nazionale (4 marzo, 3.089 casi), dichiarando zona rossa la Lombardia e 11 province dell’Italia settentrionale (8 marzo, 7.375 casi); estendendo le misure precedente all’intero territorio nazionale, chiudendo cinema, teatri e musei (9 marzo, 9.172 casi); chiudendo le attività commerciali al dettaglio e quelle legate alla ristorazione e all’accoglienza (11 marzo, 12.462 casi); arrestando le attività produttive ad esclusione di quelle legate ai settori vitali e strategici (22 marzo, 59.136 casi); restringendo gli spostamenti individuali ai soli confini comunali.     

Il 22 marzo sono stati limitati gli spostamenti individuali, salvo casi comprovati, al solo territorio del comune di residenza

Custoza, 9 aprile 2020

MALATTIA

di Carlo Andrea Franchini, medico di famiglia

Quanti modi diversi di manifestarsi ha la “Malattia” in tempi di COVID19! Sa essere subdola con sintomi sfumati che hanno portato tanti di noi a identificarla con una banale influenza: un po’ di febbre ma non tanta. Tanta tosse ma non di notte… E poi tanta, tanta stanchezza. Ma poi abbiamo imparato a riconoscerla; soprattutto adesso, che non siamo più in periodo di influenza ed è improbabile confonderla con quella. Non tutti, pochi per fortuna in realtà, sono riusciti a fermarsi qui, a questi pochi sintomi. A un certo momento la temperatura che sembrava sotto controllo con qualche compressa di antipiretico si riaccende e soprattutto quella dannata fastidiosissima tosse si impenna, non smette mai, rende difficile parlare e quell’insopportabile senso di mancanza d’aria: ecco è proprio il momento di chiamare il 118 per andare in Ospedale accompagnato da quegli uomini che sembrano vestiti da astronauti. Basterà solo di un po’ di ossigeno, vabbè accettabile anche la mascherina ma di essere intubato quello no, non deve proprio succedere…!

Un paziente affetto da Covid-19

Ma la “Malattia” sa anche modificarsi, rendersi più enigmatica non facendo più sentire i profumi che proprio in questi giorni di inizio primavera vanno facendosi via via più intensi. Ma come? sto bene, non ho febbre, non ho tosse, “non sento più niente”… E poi la sensazione di avere la “Malattia” è talmente labile e insidiosa che qualche volta sembra esserci anche in persone che proprio non ce l’hanno: non fa dormire la notte, il pensiero è sempre lì…, stai bene ma non ti senti affatto bene, soprattutto quando ascolti i numeri, numeri dati in continuazione, alla televisione, alla radio, sui giornali, così tanti e sempre più alti che sembra non possa finire mai più…! E vorresti fare il tampone, te lo hanno promesso, ma dove? Come? Quando?
Eppure la “Malattia” come tutte le “Malattie” avrà una fine anche lei, o meglio, entrerà a far parte delle nostre vite come tutte le altre sue sorelle: ci sono, qualche volta si fanno sentire ma riusciamo a tenerle confinate in una convivenza resa possibile da qualche pastiglia e da qualche vaccino. Sì andrà proprio così, come le nostre nonne ci hanno sempre raccontato ricordando la loro lontana giovinezza.

Costermano, 2 aprile 2020

MASCHERINA

di Carlo Saletti, storico e regista teatrale

Quale che sia il suo fine, la maschera copre il viso. Gli studi antropologici sulla maschera, che ne distinguono le funzioni, i contesti e le tipologie, hanno mostrato la sua ricchezza di forme e l’estensione d’utilizzo nel tempo e nello spazio. Con quella per il carnevale, forse la più diffusa, la maschera con funzione protettiva (DPI) condivide il contesto che ne richiede (permette o obbliga) l’uso: entrambe si indossano, infatti, in epoca di sovvertimento della quotidianità.

Tale è il carnevale, “mondo alla rovescia” nella felice definizione che ne diede Giuseppe Cocchiara, tra i maggiori folcloristi italiani. Sin dalla antichità classica, è questo il periodo dell’anno dedicato al festeggiamento, all’abolizione delle norme gerarchiche (i padri sbeffeggiati dai figli), al rovesciamento dei ruoli e al travestimento che, occultando i tratti somatici, cela l’identità e produce un altro da sé. La licenza carnevalesca non era estranea a fini politici. Lo spiegava bene, nel 1634, il comico Nicolò Barbieri nel suo trattato sulla Commedia dell’arte: “I trattenimenti si concedono per dar gusto alla cittadinanza, alle volte dalla penuria de’ tempi, da sinistri presagi, dalle necessarie gravezze e dalle poche facende spaventata, ove che gli spassi e le comedie levano la malinconia a’ grandi e a’ popolari”.

La maschera di Pulcinella
nell’illustrazione di Arturo Faldi (1892)
Otto Dix, “Stormtruppe geht unter Gas vor” (Truppe d’assalto avanzano nel gas, dalla serie di acquaforti Der Krieg, 1924

Sul fronte occidentale, dopo i primi mesi del 1915, fece la sua apparizione il gas di combattimento, sperimentato per la prima volta il 22 aprile di quell’anno sulla linea di fronte fra Bikschote e Langemark, nella regione belga di Ypres. Le perdite causate nelle prime ore resero chiaro agli stati maggiori quanto fosse urgente proteggere l’accesso alle vie respiratorie dei soldati combattenti, che abitavano in un mondo rovesciato già da diversi mesi. Le maschere antigas accompagnarono, di lì in avanti, la quotidianità del soldato in trincea.

Consigli per l’utilizzo della mascherina di protezione,
Twitt dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1 marzo 2020.

Viviamo da qualche settimana in un mondo rovesciato – fuori dal carnevale e fuori da una guerra di forma conosciuta. Le prassi usuali sono state sovvertite: in quale mondo diritto si è mai visto sollecitare dal sindacato la chiusura dei luoghi di lavoro, ricorrendo anche allo strumento dello sciopero? In pubblico, nelle rare uscite che la quarantena consente, è caldamente consigliato l’uso di DPI. Familiarmente li chiamiamo mascherine, perché l’indossarli suoni meno gravoso. Se il loro utilizzo non è stato eretto a obbligo lo si deve alla mancanza degli stessi, il cui fabbisogno nel nostro paese viene valutato in diverse decine di milioni al giorno. Il tempo dell’emergenza, tra le altre, si è portato via anche una delle norme sociali, a sua volta sorta da un’emergenza: quella che vietava di uscire in pubblico con il volto coperto.
Ora, comunque, è preziosa e introvabile, la mascherina di questo tempo nuovo che dà forma all’essenza delle cose.

Custoza, 26 marzo 2020

Bibliografia. Masque, mascarades, mascarons de l’Antique aux Romantiques, a cura di Dominique Cordellier, Violaine Jeammet e
Françoise Viatte, Officina Libraria, Milano, 2014; Giuseppe Cocchiara, Il mondo alla rovescia, a cura di Piero Camporesi, Bollati Boringhieri, Torino, 1881 ; Nicolò Barbieri, La supplica. Discorso famigliare a quelli che trattano de’ comici, a cura di Ferdinando Taviani, Cue Press, Imola, 2015; Ulrich Trumpener, The Road to Ypres: The Beginnings of Gas Warfare in World War I in The Journal of Modern History, vol. 47, n. 3 1975), pp. 460-480.

MEDICO DI FAMIGLIA

di Carlo Andrea Franchini, medico di famiglia

La recente infezione da COVID19 ha riportato alla memoria che esiste anche una componente della Medicina che Noi, Medici di Famiglia, ci ostiniamo ancora a chiamare appunto “di Famiglia”. Non sono lontane le parole dell’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, On. Giancarlo Giorgetti il quale, all’osservazione che, causa raggiunti limiti di età, a breve sarebbero mancati circa 45000 Medici di Famiglia rispondeva “ma chi va più dal Medico di Base?”, usando inoltre un termine che a noi risulta poco gradito (26 agosto 2019).

Non pare proprio, però, che nessuno vada più dal proprio Medico di Famiglia, non almeno quei pazienti che si sono rivolti al loro curante soprattutto nelle province lombarde, cercando una soluzione ai propri sintomi ma inconsapevolmente portando infezione e successivamente, involontariamente, anche la morte dei loro medici. E’ difficile dare una definizione completa della Medicina di Famiglia che non è solo prevenzione, cura e assistenza continuativa alla storia clinica dei cittadini, ma che ha risvolti umani troppo spesso misconosciuti ma apprezzati dai cittadini stessi. Meglio di tutti è riuscita a definire in modo esaustivo ruolo e competenze del Medico di Famiglia WONCA che è l’acronimo di World Organization of National Colleges, Academies and Academic Associations of General Practitioners/Family Physicians, utilizzando l’immagine di un albero

La “Medicina di famiglia” per Wonca

Le radici devono essere sì solidissime, la necessità di aggiornamento e formazione continua deve essere sì garantita, la capacità di risolvere problemi è pure necessaria ma è soprattutto l’approccio “centrato sulla persona” che ne caratterizza maggiormente la figura professionale. Questo ruolo emerge soprattutto quando il paziente/cittadino si trova in difficoltà e l’approccio del medico deve necessariamente essere multidimensionale, considerando cioè aspetti che non sono solo strettamente biomedici ma anche di tipo culturale, psicologico, sociale. Come è in questi giorni e come, temo, sarà in un futuro prossimo quando il Coronavirus allenterà un po’ la pressione.

Costermano, 30 marzo 2020

METAFORE DI GUERRA

di Carlo Saletti, storico e regista teatrale

La maggior parte di noi occidentali non ha mai sperimentato la guerra, ci ricorda lo storico Bell.  Conseguenza di ciò è che non ha l’idea intima di cosa essa comporta. Solo chi l’ha vissuta possiede la capacità di trovare corrispondenza con frasi come queste: “La guerra svuota, frantuma, spacca, abbatte il mondo costruito. […]. La guerra lacera, spacca. La guerra squarcia, sventra. La guerra brucia. La guerra squarta. La guerra rovina” (Sontag). Non è certo la mancanza d’esperienza diretta della guerra, tuttavia, ad impedirci di ricorrere al linguaggio della guerra per collocare e descrivere la situazione che stiamo vivendo. Se la guerra non è nella realtà, nondimeno essa divampa nelle descrizioni che diamo della realtà, pur se la guerra continua a restare un’esperienza lontana per la quasi totalità della popolazione che, tutt’al più, la conosce attraverso l’immaginario cinematografico. Del resto, che “la guerra abbia sempre avuto, nel corso dei secoli, una ripercussione molto stretta sulle lingue” (Prevót) e che linguaggi specialistici, come quello medico, siano da sempre intrisi di termini figurati derivati dal gergo militare è noto.

Il nostro linguaggio dispone di un arsenale lessicale strutturato attorno all’oggetto guerra che in queste settimane si è dispiegato nella sua varietà. L’epidemia è trattata con un linguaggio bellico; gli ospedali sono trasformati nella prima linea dove la guerra si combatte; medici e infermieri divengono i soldati al fronte e chi ha continuato a lavorare nel periodo di confinamento è equiparato a una sentinella; noi stessi, chiusi nei nostri alloggi, ci trasformiamo nell’esercito paziente che oppone resistenza; le medicine che si stanno sperimentando sono considerate le nostre munizioni e il confinamento l’arma di cui disponiamo, mentre i bollettini diramati quotidianamente aggiornano sul numero delle perdite e sull’avanzamento del nemico. La regione Toscana, secondo quanto riportato il 18 marzo da “La Nazione”, è arrivata a dichiarare «guerra totale» al coronavirus. Indotti a pensare che l’epidemia sia una guerra, ci esprimiamo come se essa fosse una guerra e ci convinciamo che così deve essere.

Il ricorso al lessico bellico nell’ambito delle politiche sanitarie ha una salda tradizione negli Stati Uniti. Vi aveva fatto ricorso Richard Nixon quando, firmando il National Cancer Act, il 23 dicembre 1971, dichiarava la guerra degli Stati Uniti al cancro.

La guerra, dunque, è entrata nelle nostre vite, come mai prima d’ora, attraverso le metafore e le analogie belliche utilizzate in questo periodo. Il lessico militare circola sui giornali, offre i termini con cui descrivere ciò che ci sta innanzi e in cui viviamo immersi. Dal 23 al 30 marzo, secondo un’indagine statistica condotta dalla Università Cattolica di Milano su alcune delle più seguite testate quotidiane on line, 99 articoli sono stati intitolati ricorrendo a metafore di guerra. A cent’anni dalla fine della prima guerra mondiale, i media sono tornati a rendere conto di battaglie, di trincee, di offensive, di eroi… La parola ‘guerra’ è all’ordine del giorno nelle conferenze stampa date dai politici e da chi governa e i riferimenti al gergo militare alimentano l’enfasi retorica.

Così, il primo ministro Giuseppe Conte, che nella conferenza stampa del 9 marzo ha accostato la situazione attuale a quella vissuta dalla popolazione inglese all’indomani dell’aggressione tedesca del 1940, citando una celebre locuzione dello statista alla guida del paese esposto a bombardamenti delle forze aree del Terzo Reich: “In questi giorni ho ripensato ad alcune vecchie letture, a Winston Churchill. Questa è la nostra ‘ora più buia’. Ma ce la faremo”. Così, il presidente francese Emmanuel Macron, il 16 marzo, rivolgendosi ai propri concittadini con un discorso trasmesso sui canali televisivi: “Noi siamo in guerra, una guerra sanitaria di certo. Non stiamo combattendo contro un esercito o un’altra nazione, ma il nemico è lì, invisibile, inafferrabile e avanza. E ciò richiede la nostra mobilitazione generale”. Così, Pedro Sanchez, primo ministro del governo spagnolo, nel corso di una conferenza stampa tenuta alla fine del mese di marzo, quando ha dichiarato che “La guerra contro il coronavirus è permanente”. La convinzione che l’America stia combattendo una guerra in casa ispira il tono discorsivo al presidente Trump, convinto solo poco più di un mese fa che si trattasse di una semplice influenza. Nell’incontro alla Casa bianca con giornalisti del primo aprile ha esordito dicendo che “l’America continua a condurre una guerra totale contro il virus”.

L’epidemia provocata da coronavirus è generalmente paragonata a una guerra che l’intero pianeta, iniziando dai suoi servizi sanitari nazionali, sta combattendo contro un nemico invisibile.

Per prima cosa, va affermato che la pandemia non è una guerra. A ricordarcelo sono gli inviati speciali, come Alberto Negri, che in una recente intervista ha dichiarato: “Ai nostri padri è stato chiesto di andare al fronte, a noi di restare seduti sul divano. È cosa ben diversa. Il linguaggio bellico non rispecchia la realtà materiale politica e sociale che stiamo vivendo. Intorno a noi ci sonio guerre vere che non finiscono o non sono finite con la pandemia come in Siria, in Libia, in Yemen”. D’altronde, sono sotto i nostri occhi le differenze tra il virus, e la malattia che esso causa, e quello che si descrive come il nemico nell’ambito militare, come ci ha ricordato lo scrittore Ramón Lobo sul quotidiano spagnolo “El País”, il 3 aprile scorso: “Covid-19 non ha bandiere o ideologie; non parla nessuna lingua; non conosce il significato della parola confine, sa solo che il corpo umano è un buon posto per sopravvivere e diffondersi. Non avanza sulle nostre posizioni. Non ci sono trincee, né un fronte”.   

In secondo luogo, occorre capire quali siano gli effetti prodotti da una metafora e, infine, cosa comporti paragonare questa condizione epidemica a uno stato di guerra. I moderni studi di semantica cognitiva si interessano alle metafore non tanto come figure stilistiche, ma come operatori di senso. In uno dei contributi più rilevanti sulla questione, George Lakoff e Mark Johnson hanno sostenuto che il nostro stesso sistema concettuale “sia in larga misura modellato dalle metafore che usiamo”, che influenzerebbero la nostra percezione della realtà, il nostro pensiero e le nostre azioni. Essenza della metafora è dunque quella di far comprendere e vivere esperienze definite nei termini di altre (l’epidemia come una guerra) attraverso un meccanismo, definito inquadramento metaforico (metaphorical framing), che opererebbe senza che i soggetti ne riconoscano l’influenza (Thibodeau e Boroditsky). Sono esattamente queste cornici mentali ad orientare le nostre visoni del mondo.  

A cent’anni dalla fine della prima guerra mondiale, i media sono tornati a rendere conto di battaglie, di trincee, di offensive, di eroi (immagine tratta dal reportage fotografico Luchadores contra la pandemia, apparso il 25 marzo 2020 su “El País Semanal”)

Lo stato di guerra comporta l’acceso a uno spazio di eccezione. La comunicazione politica, insistendo sulla dimensione bellica, vuole risultare nell’invito alla mobilitazione. Investita dal pericolo e dall’insicurezza recate dal nemico invisibile, l’opinione pubblica si compatta e risponde più docilmente alle disposizioni impartite per «vincere la guerra». Più ancora, etichettare il virus come nemico e insistere nella retorica della guerra può portare, in generale, a semplificare l’eziologia del virus. Altrimenti detto, a disconoscere che l’emergere di nuove specie virali potenzialmente pericolose per l’uomo sono una conseguenza dello sviluppo socio-economico che ha si è accompagnato al processo di globalizzazione e che la loro comparsa è la denuncia più forte della fragilità e della strutturale instabilità del sistema di interdipendenze, cui si fonda questo modello di sviluppo. Ricondurre l’epidemia a una guerra e individuare nel virus un nemico contro cui combattere riduce significativamente la complessità delle cause che ne sono all’origine e appare grandemente vantaggiosa, perché essenzializza le questioni di fondo che, al contrario, andrebbero poste. Ne è buona prova l’ostinazione con cui l’amministrazione americana ha cercato di spiegare l’origine del ‘nemico’: indicandolo inizialmente, quasi fosse insopportabile l’idea che mancasse di una lingua o di una bandiera, con il nome di virus ‘cinese’ o ‘di Wuhan’, avanzando successivamente l’ipotesi, non nuova e cara a tanti complottisti, che fosse stato rilasciato da un laboratorio di ricerca biologica cinese. 

Nulla di tutto ciò. In definitiva, come è stato acutamente osservato, questo virus “non è un invasore, ma un semplice autostoppista”.

Custoza, 21 aprile 2020

Bibliografia. David A. Bell, «La guerre au virus», le passé d’une métaphore in “Le Grand Continent. L’Observatoire géopolitique du Covid-19 ”, 7 aprile 2022, all’indirizzo https://legrandcontinent.eu/fr/2020/04/07/david-bell-guerre-coronavirus/; Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano, 2003; Georges Prévot, Essai surl’emploi figuré des termes de guerre dans le langage contemporain in “Mercure de France”, n. 494, 1919; George Lakoff, Mark Johson, Metafora e vita quotidiana, a cura di Patrizia Violi, Bompiani, Milano, 2004; Paul H. Thibodeau, Lera Boroditsky, Metaphors we think with: the Role of Metaphor in Reasoning in PLoS ONE, 6 (2), 2011 all’indirizzo http://lera.ucsd.edu/papers/crime-metaphors.pdf.

MONDI PARALLELI

Carlo Saletti, storico e regista teatrale

Trapela, qua e là, l’impressione di vivere in mondi paralleli, distinti ma coesistenti. Due per l’esattezza, straordinariamente simili per essere entrambi afflitti da un’epidemia portata da un virus sconosciuto a cui è stato dato il nome di SARS-Cov-2. Un terzo degli abitanti che li popola è, ora, confinato nelle abitazioni, le attività economiche sono in gran parte state arrestate, vengono diradati quotidiani bollettini sul numero dei contagi e su quelli di guarigioni e decessi, che combaciano. In entrambe i due mondi, i media sono quasi interamente assorbiti dagli aggiornamenti sul contagio e ai servizi di previsione del tempo si sono sostituite le previsioni sul raggiungimento del picco della curva epidemiologica e sulla riapertura, chiamata anche Fase due. Sia qua che là, virologi, immunologi, infettivologi sono ospiti fissi dei talk show e hanno relegato al ruolo di comprimari gli ospiti abituali, cui hanno strappato la scena. I due mondi parrebbero in tutto e per tutto la copia l’uno dell’altro, se non fosse per un un particolare… l’uso della mascherina.

In uno dei due mondi, che chiameremo MONDO CM 2020, la mascherina è considerata obbligatoria, mentre nell’altro, definiamolo MONDO SM 2020, essa è facoltativa. Nel mondo CM 2020, sono in vigore disposizioni che vietano l’accesso agli esercizi commerciali a chi non la indossi, secondo quanto previsto dalle ordinanze regionale (una tra tutte, la n. 521 della Regione Lombardia: “Ogniqualvolta ci si rechi fuori dall’abitazione, vanno adottare tutte le misure precauzionali consentite e adeguate a proteggere sé stesso e gli altri dal contagio, utilizzando la mascherina o, in subordine, qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca, contestualmente ad una puntuale disinfezione delle mani”).
Nel mondo SM 2020, invece, ci si regola. E il prima a farlo è il responsabile della Protezione civile che, in mancanza di dichiarate prove scientifiche sulla reale utilità della mascherina, continua a mostrarsi senza e ripete alla stampa che così si sente di fare dal momento che l’osservanza della giusta distanza interpersonale rende superflua la protezione individuale: “Anche ieri ho detto che non uso la mascherina, ma rispetto le regole del distanziamento sociale. La mascherina è importante, se non si rispettano le distanze, per evitare l’infezione da virus”.

Il 3 aprile, nel corso della lettura quotidiana del bollettino sulla diffusione del coronavirus in Italia,
il responsabile della Protezione civile Angelo Borrelli è intervenuto sull’uso della mascherina.

Nel mondo CM 2020, ci sono scienziati che invitato i recalcitranti, utilizzando il loro prestigio e solide evidenze scientifiche, a convincersi della necessità di indossare la mascherina comunque. Lo ha fatto, tra gli altri, il biologo molecolare Sui Huang in conclusione di un lungo articolo, apparso il 27 marzo, scrivendo che “esistono ora solide basi scientifiche per raccomandare o addirittura imporre un ampio uso di maschere come è stato fatto nei paesi asiatici che hanno piegato la curva”.
Nel mondo SM 2020, si sono scienziati che confessano il loro scetticismo, come ha fatto la virologa Ilaria Capua, che in una recente trasmissione televisiva si è pronunciata dicendo che personalmente non la porto: “Le mascherine sono tante e hanno funzioni diverse, sono una barriera fisica”, ha osservato, aggiungendo tuttavia che “i virus possono passare, anche se possono essere frenati da questa barriera fisica costituita dalle mascherine chirurgiche. Le mascherine con i filtri lasciamole però al personale sanitario”.

Ancora, in questo mondo, il papa ha presieduto la Via crucis in una Piazza san Pietro senza fedeli. Il Papa osservava, da sotto un baldacchino, due gruppi di persone venirgli incontro, percorrendo le canoniche stazioni previste per l’esercizio devozionale del venerdì santo. Chi seguiva la messa trasmessa in mondovisione poteva cogliere, nelle inquadrature in primo piano del papa e dei presenti, la preoccupazione per il difficile momento che il pianeta sta attraversando. Se lo poteva fare, era perché nessuno di loro – tra cui alcuni membri della Direzione Sanità e Igiene del Vaticano in rappresentanza del personale medico e sanitario che in questi mesi segue i malati di COVID-19 – aveva il viso coperto dalla mascherina. Nel mondo CM2020, nel frattempo altri medici protestano per la difficoltà di approvvigionare secondo necessità gli ospedali dei dispositivi di protezione individuale detti anche mascherine.   

Il 10 aprile, il gruppo dei fedeli incaricato di percorrere le stazioni della Via crucis nella ripresa della RAI.

Custoza (VR), 13 aprile 2020

MONDO

di Mimmo Colombo, manager e giornalista

Italo Calvino, già nel 1988, segnalava nelle sue Lezioni Americane come fossimo ormai coperti di una tale quantità di immagini da non sapere più distinguere l’esperienza diretta da ciò che avessimo visto solo per qualche istante sui media. “Frantumi di immagini come depositi di spazzatura” scriveva allora con la consueta lucidità. La società della innovazione digitale, pur con le enormi potenzialità e risorse di cui ci ha dotato, ha successivamente accentuato ulteriormente questo pericolo. E ancor di più, questo periodo di stop forzato per il virus corre il rischio di spingerci in tale direzione. L’ utenza dei media sta, infatti, cambiando radicalmente: basti il dato dell’incremento dell’utilizzo medio singolo di 5 ore e 46 minuti al giorno rispetto al periodo corrispondente del 2019 (con in testa i giovani e giovanissimi e le reti televisive generaliste) insieme a quello del raddoppio dei canali televisivi web facendoci arrivare addirittura ad una presenza serale complessiva di circa 30,8 milioni (dati ricerca Studio Frasi 8-30 marzo). Parallelamente è segnalata una continua e straordinaria frammentazione di utilizzo che riguarda le fonti e i siti più disparati, talvolta purtroppo anche di quelli assolutamente inaffidabili. Ecco perché vale la pena fermarsi un attimo, tirare il fiato e riflettere con calma oggi sul MONDO. Così una cerimonia funebre a Seoul viene legata a Death by Water di T.S. Eliot che può essere associata allo sviluppo  della pandemia, ma non esclusivamente; l’incontrollato deperimento della materia nella mitica Berlino affiancato alla dualità della scelta esistenziale in Sam Shepard; o un’ immagine di un piccolo centro del Nevada, che propone decine di opzioni religiose, ai versi basati sulla solitudine e l’inquietudine ma anche alla voglia di riscatto di The Rising di Bruce Springsteen. Tre focus che nascono, peraltro, volutamente aperti, nell’ottica della riflessione di Calvino e in opposizione frontale alle troppe saturazioni e intrusioni anche odierne, ad attivare ogni possibile suggestione dell’utente.

Mimmo Colombo, Changdeokgung, Seoul, 2015, ©

Death by Water
(La morte per acqua)

Fleba il Fenicio, morto da quindici giorni,
Dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare
E il guadagno e la perdita.

Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi della maturità e della gioventù
Entrando nei gorghi.

Gentile o Giudeo
O tu che volgi la ruota e guardi nella direzione del vento
Pensa a Fleba, che un tempo è stato bello e ben fatto al
pari di te.

T.S. Eliot, The Waste Land, 1926, Einaudi 1997, traduzione di Mario Praz

Mimmo Colombo, Rust, Berlin, 2012, ©

“Macchie di umidità nei punti in cui le tubature gocciolavano. Avevano entrambi i brividi per la febbre. Non parlavano. Lui pensava a una sala scommesse che si chiamava da Julian sulla Quattordicesima Strada. Lei aveva paura di morire. “

Sam Shapard, Motel Chronicles, 1982, il Saggiatore 2016

Mimmo Colombo, Pahrump Churches, EN, USA, 2007, ©

My City of Ruins
(La mia città di rovine)

C’è un cerchio rosso sangue
sulla fredda terra scura
e la terra sta cadendo giù.
Le porte della chiesa si spalancano:
posso sentire la musica dell’organo
ma i fedeli se ne sono andati.
La mia città di rovine…
La mia città di rovine…

Ora le dolci campane della misericordia
annegano tre gli alberi della sera:
giovani nell’angolo come foglie sparse,

le finestre sbarrate,
le strade deserte
mentre mio fratello è in ginocchio.
La mia città di rovine…
La mia città di rovine…
Dai, risolleviamoci!
Dai, risolleviamoci!
Dai, risolleviamoci!


Bruce Springsteen, My City of Ruins, da The Rising, Columbia, 2002, traduzione di Mimmo Colombo

Verona 12 aprile 2020

MORIRE

di Elena Alfonsi, critico dell’arte

Cesare Ripa nel libro a cui si dedicò per circa trent’anni della sua vita, “Iconologia”, scrive di Camillo Filippi, detto Camillo da Ferrara. Lo definì “Pittore intelligente per come dipinse la morte, riprendendo fedelmente il volume delle pitture di Anton Francesco Doni che cita esplicitamente Petrarca. “La Morte è fin d’una prigione oscura/a gli animi gentili, a gli altri è noia,/che hanno posto nel fango ogni miglior cura”. Ed è alludendo al vestimento che afferma: “E perché molto ci preme nel viver Politico la Religione, la Patria, la fama, e la conservazione delli stati, giudichiamo esser bello il morire per queste cagioni, e ce la fa desiderare il persuaderci che un bello morire tutta la vita onora”.

Un passo contenuto all’interno del più vasto repertorio delle immagini allegoriche adottate nelle arti figurative. Il prodotto di una cultura che desiderava creare una morale laica facendo uso, con sensibilità classicista, dell’autorità dei grandi scrittori del passato. Parole in cui “l’isolamento sociale del morire affidato al linguaggio delle tecniche mediche”non esisteva ancora e gli estremi onori resi al defunto, specificatamente relativi a quanto prescrive il rito religioso, erano strettamente connotati dai propri simboli. Occidente e Oriente in questo tragico momento della storia dell’Uomo si trovano ad affrontare la necessità di seppellire o cremare i tanti cadaveri dovuti alla morte per Coronavirus con le stesse modalità.

Cesare Ripa in un ritratto del 1624
Claude Monet, Camille Monet sul letto di morte, 1879

Claude Monet il 5 Settembre del 1879 reagì con la pittura al dolore per la morte della sua amata Camille. Scrisse: “I miei occhi erano rigidamente fissi sulle tragiche tempie e mi sorpresi a seguire la morte nelle ombre del colorito che essa depone sul volto con sfumature graduali. Toni blu, gialli, grigi, che so.” Guardò la moglie morire per osservare il trascolorare dell’epidermide sul volto. La ritrasse con furore pittorico a pennellate di colori che scaturivano dal proprio animo sconvolto. Il corpo di Monet rispose automaticamente allo choc e, lasciandosi attraversare dalle emozioni, con l’uso del colore prese coscienza della sua morte. Così facendo fissò per sempre il volto di Camille sulla tela e ne accettò la perdita.

Ora in questa antica terra, nell’agghiacciante silenzio di città semideserte, l’uomo patisce il definitivo distacco da corpi che ama, sottratti nudi alla vita. Rinchiusi entrambi, noi e loro, e per sempre privati dallo scambio degli ultimi sguardi, gesti e parole in un tempo interrotto tragicamente; lontano dagli altri ma anche lontano da noi.

Levata di Curtatone (MN), 24 marzo 2020

Bibliografia. Cesare Ripa, Iconologia, 2012, Torino, Giulio Einaudi Editore; Francesco Petrarca Triunphus Mortis, II, 34-36; Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta; Ines Testoni, L’ultima nascita.Psicologia del morire, Dad Education, Bollati Boringhieri, Torino, 2015

MUSICA DISTANZIATA

di Carlo Saletti, storico e regista teatrale

Si è allargato significativamente in queste settimane il numero di formazioni sinfoniche, cameristiche e vocali che fanno musica distanziata. A cavallo tra concerto e flash mob, l’esecuzione di brani strumentali e corali in remoto – che si rifà alle esperienze condotte dal 2009 dal compositore e direttore statunitense Eric Whitacre – è la modalità di produzione musicale collettiva che meglio corrisponde al tempo dell’epidemia. Immaginata come un esperimento di musica a distanza, la cosiddetta “musica virtuale” appare ora come la migliore risposta all’imperativo del distanziamento, che ci tiene separati.

Il mosaico dei volti si forma sullo schermo, mentre i musicisti eseguono la musica distanziata. È questo il tratto visivo che meglio esemplifica la modalità di produzione della musica nei tempi dell’epidemia, molto lontano dall’immagine dell’esecuzione sinfonica a cui siamo abituati.  
Un concerto di musica sinfonica tradizionale

YouTube è divenuto l’auditorium planetario dove esibirsi e presentarsi sotto forma di un mosaico composto di decine, se non centinaia, di volti ripresi(si) in formato tessera all’interno delle proprie abitazioni: un autoritratto parlante di singoli musicisti, che divengono una sola moltitudine nella fase della postproduzione.

Il programma di sala è ricco e le repliche illimitate, per ascoltare, confinati nei nostri appartamenti, musicisti confinati suonare assieme: dal 20 marzo, il quarto movimento della Sinfonia n. 9 in re minore di Ludwig van Beethoven eseguito da musicisti della Rotterdams Philarmonisch Orkest;dal 30 marzo, il maestoso movimento finale della Terza sinfonia in re minore di Gustav Mahler nell’interpretazione dellaBaltimore Symphony Orchestra; dal 3 aprile, il “Bolero” di Maurice Ravel nella versione domestica della New York Philharmonic. Un paio di giorni più tardi, la Milwaukee Symphony (Virtual) Orchestra si è raccolta per proporre, diretta da Ken-David Masur, il meraviglioso adagio delle Variazioni Enigma op. 36 del compositore Edward Elgar, mentre l’10 aprile i sessantaquattro professori dell’Orchestra filarmonica della Scala hanno ricordato la pasqua, eseguendo il Canone di Pachelbel “come segno di vicinanza a tutti i medici, gli operatori sanitari, della protezione civile e delle forze dell’ordine, le associazioni, i volontari e tutte le persone che stanno dedicando il loro impegno a sostegno di chi soffre a causa del Covid-19 in Italia e in tutto il mondo”; di ventidue ore fa – e probabilmente non è l’ultimo di questo genere a essere stato postato – è il video dell’interpretazione del “Valzer n. 2” dalla Suite per orchestra di varietà di Dmítrij Šostakóvič interpretato dall’Orchestre National de France.

In risposta alla cancellazione della data prevista del concerto, a causa del diffondersi nel Regno Unito della pandemia, i componenti dell’Orchestra of Opera North hanno deciso che l’impegno andasse rispettato. I quaranta musicisti, indossato l’abito da concerto, hanno suonato nelle loro abitazioni inglesi diretti dalla Svezia da Tobias Ringborg, la parte inziale del Poema sinfonico op. 30 “Also sprach Zarathustra”, composto da Richard Strauss nel 1896.

Una tenace e irriducibile forza ci porta a fare quello che amiamo e che sappiamo fare, anche quando i frangenti vi si opporrebbero. I musicisti non smettono di suonare i loro strumenti – e non possono che continuare a farlo assieme. Vale ancora di più, in quest’epoca nuova e singolare, quanto ebbe a osservare il filosofo Vladimir Jankélévitch: “In fin dei conti si può anche vivere senza filosofia, senza musica, senza gioia e senza amore. Ma mica tanto bene”.

Il filosofo ebreo russo Vladimir Jankélévitch (1903-1985) ci è vicino nella riflessione sulle virtù quotidiane.

Custoza 16 aprile 2020

Bibliografia. Vladimir Jankélévitch, Trattato delle virtù, Garzanti, Milano, 1987

NASCONDERSI

di Frediano Sessi

La ricerca storica ha rivelato che nel grande complesso concentrazionario di Auschwitz, composto da tre campi principali (Auschwitz I, Birkenau e Monowitz) e da oltre 42 sotto-campi di lavoro, per un totale di prigionieri stimato, tra il giugno del 1940 e il gennaio 1945, pari a 1.300.000, di cui più di 1.100.000 ebrei, le evasioni furono 802 e, tra queste, 45 dovute a donne deportate. Dai dati in nostro possesso, sappiamo che soltanto 144 furono opera di prigionieri che sopravvissero alla guerra. La maggior parte delle evasioni si verificò negli anni 1943 e 1944. Quando la fuga era preparata dal Comitato internazionale di resistenza del Lager, prevedeva che l’evaso si nascondesse all’interno del recinto del campo. I prigionieri che organizzavano la fuga di uno o due di loro, predisponevano dei nascondigli nei pressi del luogo di lavoro, che venivano poi coperti di terra e rami, con dispersione intorno di polvere di tabacco o di trementina per fare in modo che i cani delle SS non scoprissero la presenza di esseri umani. I prigionieri rimanevano nel nascondiglio, senza luce e spesso respirando aria da piccoli pertugi, coperti di terra e foglie, o all’interno di cataste di legna, da tre giorni a una settimana e comunque tutto il tempo necessario a che il comando del Lager sospendesse l’allerta e le ispezioni con il reparto cinofilo delle SS. Tra le evasioni, organizzate dalla resistenza, più note, quella degli ebrei Rudolf Vrba (Walter Rosenberg) e Alfred Wetzler, avvenuta il 7 aprile 1944 dal campo di Birkenau. I due, nascosti nel settore del Lager denominato Mexico, riuscirono a redigere un memoriale sullo sterminio in atto, di oltre sessanta pagine, che raggiunse il mondo libero (Croce Rossa internazionale, Congresso ebraico mondiale, Paesi alleati contro la Germania, Vaticano). Nel novembre del 1944, quando ormai anche lo sterminio di oltre quattrocentomila ebrei ungheresi era concluso, il rapporto Vrba-Wetzler venne pubblicato in lingua inglese. Nonostante la loro coraggiosa e pericolosa azione, l’Occidente libero non fece niente per salvare gli ebrei ancora in vita ad Auschwitz.

Il nascondiglio della famiglia Frank ad Amsterdam

I giovani ebrei (uomini e donne) che diedero vita alla rivolta armata nel ghetto di Varsavia, iniziata il 19 aprile 1943, per non essere arrestati e deportati si nascosero in stanze murate di case diroccate, in nascondigli cui si accedeva dalla buca dei gabinetti, nelle fognature del ghetto, dove rimanevano per settimane, spesso con difficoltà di accedere ad acqua e cibo. La fotografia del bambino con le mani alzate che, insieme ai suoi famigliari e ad altri ebrei, esce da un nascondiglio, all’interno di un palazzo in fiamme, è diventata da anni un’icona universale della Shoah. Non si tratta di uno scatto isolato ma appartiene a un album che il Generale SS Jürgen Stroop ha allegato al suo rapporto, destinato a Heinrich Himmler e Friedrich-Wilhelm Krüger (rispettivamente, capo supremo delle SS e responsabile generale della Polizia di sicurezza SS di Varsavia) intitolato: Non esiste più un quartiere ebraico a Varsavia. Proprio in questo album fotografico, i nascondigli di quelli che erano considerati dalle SS «ribelli pericolosi» vengono rappresentati nella loro realtà e ci dicono come fosse difficile vivere così nascosti in luoghi malsani e impervi.
In questi casi, nascondersi e rimanere nascosti il maggior tempo possibile era sinonimo di speranza di salvezza da una morte sicura. Il nascondersi e il rimanere reclusi volontariamente erano comunque azioni legate a scelta di resistere all’oppressore, mettendo in gioco la propria vita per salvarne altre.

Mantova, 24 aprile 2020

Bibliografia essenziale. Frediano Sessi, Auschwitz 1940-1945, Rizzoli BUR; Gideon Greif, Itamar Levin, Aufstand in Auschwitz, Böhlau Verlag; Frédéric Rousseau, Il bambino di Varsavia, Laterza; Rudolf Vrba, I protocolli di Auschwitz, Rizzoli BUR.

NEMICO

di Roberto Ricciuti, docente di politica economica univr

La categoria del nemico è diventata centrale nei giorni del coronavirus. Del resto, se tutta la situazione è descritta come una guerra, in guerra si combatte contro un nemico, per quanto in questo caso invisibile. Allora per visualizzarlo bisogna dargli delle sembianze umane e soprattutto straniere. Per Trump è “il virus cinese”, per il Mail on Sunday è stato Michel Barnier, il negoziatore (francese) per l’Unione Europea del trattato che regolerà i rapporti tra la stessa e il Regno Unito dopo la Brexit, ad infettare il primo ministro Boris Johnson. In Italia all’inizio erano i cinesi, in quanto portatori del virus, poi lo sono diventati tedeschi e olandesi, e più in generale l’Unione Europea, perché si opponevano all’istituzione dei corona bond. La Seconda guerra mondiale viene tirata in ballo per ricordare, da una parte, le colpe dei tedeschi e, dall’altra, come il debito di guerra fosse stato poi parzialmente a loro condonato dai paesi europei.

I sospetti del Mail on Sunday su Michel Barnier
Gli inviti alla delazione del Comune di Roma

Ma c’è anche il nemico interno: il runner, Il genitore che fa una passeggiata con il figlio minore, chi fa la spesa: contro di loro, visti tutti come possibili untori, si fanno fotografie che vengono pubblicate su Facebook, sindaci invitano alla delazione pubblicando un apposito modulo, la comunicazione dei telegiornali enfatizza il numero dei controlli effettuati e di soprattutto di coloro che non hanno rispettato la legge, sebbene siano una percentuale molto limitata sul numero dei controlli.

Firenze, 9 aprile 2020

Noè
Marcel Proust, Les Plaisirs et les Jours, Édition Gallimard 1993. Traduzione di Lorenza Foschini

di Lorenza Foschini, scrittrice

“ Più tardi mi ammalai molto spesso e per lunghi giorni fui costretto a rimanere nell’«arca». Capí allora che mai Noé poté vedere il mondo così bene come dall’arca, nonostante fosse chiusa e che facesse notte sulla terra.”

Marcel Proust nella sua camera

Nei giorni in cui, confinati nelle nostre case o immobili e  intubati nelle sale di terapia intensiva, siamo inermi davanti all’oscura minaccia che mette a rischio la nostra vita, ci troviamo anche noi rinchiusi in un’arca mentre é “notte sulla terra”. E il pensiero va alle parole di un ragazzo, poco più che ventenne, che sin dall’infanzia aveva imparato a lottare contro la malattia, nel buio della sua stanza, sdraiato a letto, per trovare sollievo all’asma che lo tormentava e gli incuteva il terrore di morire soffocato. Fu in quelle ore buie che Marcel Proust avvertí, per la prima volta, attraverso la sofferenza, la realtà di un mondo diverso da quello che appare alla luce del sole e intuí che dietro il sopraggiungere del ricordo di una nuvola, di un fiore, di un campanile si potevano scoprire segni diversi come nei caratteri geroglifici che non rappresentano solo oggetti materiali, ma un equivalente spirituale che occorre saper fare uscire dalla penombra.

San Casciano dei Bagni (Siena) , 2 aprile 2020

NOI QUINDICENNI E LA PAURA

di studentesse di Elena Lonardi, docente

A proposito della paura, Mariapia Veladiano qualche anno fa scriveva: “Per paura la vita diventa un camminare sghembo. Scarto improvviso per non sfiorare il prossimo che rimane sconosciuto. Scappare di sguardi con la paura al centro e tutto il mondo a confine. Incrociarsi in difesa senza incontrarsi. (…) Per paura si abbandona la battaglia buona del nostro bene. La relazione che ci fa persone, viste e riconosciute. (…) non aver paura ce lo deve dire un altro”. ( Ma come tu resisti, vita, Torino, 2013). Queste le parole di alcune mie allieve di prima liceo scientifico a questo proposito. I loro nomi sono immaginari.

Sara. La mia paura più grande durante questa emergenza del Coronavirus è quella di perdere qualcuno che mi è caro.
Elena. La mia più grande e costante paura è sicuramente quella di perdere i miei cari. Accanto a questa però c’è anche il timore di non poter tornare alla normalità di tutti i giorni. Mi lamentavo di quanto fosse frenetica e stancante, ma ora mi rendo conto che avrei dovuto saperla apprezzare di più.
Maria. Mi manca la normalità. Anche se col tempo sto imparando ad accettare la situazione: questo è infatti l’unico contributo che posso dare. Mi sento sola anche se ho la mia famiglia a fianco.
Franca. Io ritengo che la paura più grande in questo periodo sia perdere i propri cari e i propri amici senza poter passare l’ultimo periodo della loro vita rimanendo loro vicini. Sentire al telegiornale che moltissime persone non potevano andare a trovare in ospedale i propri cari o andare al loro funerale e portare fiori sulla loro tomba mette angoscia.

Arnold Böcklin, Peste, 1898

Irene. Parlare di paura per me non è mai stato semplice e in generale parlare di emozioni perché sono sempre stata abbastanza riservata. Ho capito, però, che la paura che io sento in questi giorni, in questi mesi, è quella di perdere qualcuno che per me è importante. E’ come quando leggi un libro e muore il tuo personaggio preferito, ti senti vuota e senti che proseguire nella lettura risulta sempre più pesante.
Imma. Paura. E’ un sentimento che ormai mi perseguita, lo ritrovo in ogni mio piccolo gesto, pensiero. Ho paura, paura di perdere quegli amici con cui ero abituata ad avere rapporti solo di persona. Alcuni li ho già persi, questo mi ha fatto anche scoprire chi c’è sempre e ti vuole sempre, ma anche chi non è interessato a me. Un’altra paura è quella delle conseguenze economiche che avrà tutto questo sulla mia famiglia. Lavoravano molto e in questi giorni sempre di più. Sono stressati da questa situazione.

Giorgia. C’è sempre il timore che persone come mio padre, che continuano a lavorare, si infettino e possano contagiare tutta la famiglia. Per me è molto frustrante la condizione di impotenza che sono obbligata a vivere e ad affrontare ogni giorno da mesi.
Valentina. In questo momento per me la paura non è solo il timore nei confronti di qualcosa che non conosco, ma assume mille altri significati, come la confusione, l’indifferenza, la sofferenza, la solitudine. Sento la mancanza della mia vita normale e anche dei disagi quotidiani e delle paure “sceme”. Guardando la televisione, leggendo i giornali, aprendo i social vedo indifferenza, leggerezza, discorsi surreali, persone che credono che tutto tornerà normale il 4 maggio, Mi sembra surreale pensare anche di poter andare al mare in estate, con le distanze stabilite… è inevitabile che sarà impossibile rispettarle.

Francis Bacon, Studio dal Ritratto di Innocenzo X di Velasquez, 1953

Giovanna. È impossibile descrivere la paura su un pezzo di carta, è un concetto complesso, ma, in fondo, molto comune. in questi giorni sto ascoltando una canzone di Zach William, intitolata “Fear is a liar” e le parole che mi colpiscono particolarmente sono queste: “…Fear he is a liar He will take your breath Stop you in your steps Fear he is a liar He will rob your rest Steal your happiness Cast your fear in the fire ‘Coz fear he is a liar…” “…La paura è una bugiarda Ti toglierà il fiato Ti fermerà nei tuoi passi La paura è una bugiarda Ti ruberà il riposo e la tua felicità Getta il tuo timore nel fuoco Perché la paura è una bugiarda…” Mi hanno colpito queste parole perché mi danno coraggio.
Carla. Non ho paura di rimanere a casa e non ho paura di resistere. Perché dovremmo aver paura? Si tratta solo di pazienza. Questa è una guerra che combattiamo sul divano, con i popcorn, una coperta morbida, un bel film e, chi può, con una famiglia. Dobbiamo superare le nostre paure, con calma e sopportando il lungo periodo che ci aspetta. Vedere igli amici, uscire, divertirsi sono quello di cui io e tutti noi ragazzi abbiamo bisogno. Non è avere paura: è aver bisogno di queste cose.
Eleonora. Ho avvertito la paura quando il termine quarantena rappresentava una lontana realtà. La paura peggiore per me è data dal non conoscere, dall’ignoto: all’inizio non si sapeva cosa sarebbe successo e cosa il virus avrebbe comportato. Surreale oserei dire, probabilmente se mi avessero raccontato che sarebbe accaduto tutto ciò, non ci avrei creduto. Questo è un momento sterile, la sensazione che si respira è di vuoto. Attraverso il vetro della finestra, scorgo una natura che trasmette vita, contrastante con il presente: mi dà speranza!

Rosa Ho quindici anni e posso affermare di star vivendo un momento della storia umana che verrà raccontato nei prossimi libri di storia e ricordato per sempre. Ho paura, sono spaventata dal solo pensiero di perdere una persona che amo: i miei genitori, i miei nonni, la mia famiglia. Ho paura di non poter più vivere un’adolescenza normale e di perdermi gli anni più belli della mia vita. Mi sento paralizzata, a volte non so che cosa provare, sembra come se non riuscissi più a trovare i miei sentimenti. Mi sento persa. Dov’è la persona che conosco, dove sono? Questo forse mi cambierà per sempre, ho paura di vivere ma ho paura di morire, l’unica speranza è che tutto questo finisca. Spero un giorno di svegliarmi e ritornare a vivere la mia vita.
Alberta Come si racconta l’angoscia quando non si è mai provata forte fino a questo punto? Forse lo si può fare solo passando in rassegna le abitudini che si sono dovute abbandonare, una ad una. Si racconta nel guardare il cielo di notte, provando un’irrefrenabile voglia di scappare di casa. Poi arriva l’insicurezza quando cominciamo ad immaginare che la situazione non abbia alcuna soluzione, avanza quando si presenta la consapevolezza della possibilità di non poter vedere più qualcuno, si palesa quando cominciamo a pensare che forse quella litigata si poteva evitare, che quelle parole, forse le ultime che verranno scambiate con certe persone, potevano essere spese meglio. Il timore si materializza davanti a noi quando su ogni canale ci sono spot e pubblicità riguardanti il virus, si crea dalle fake news, si plasma quando non si hanno più parole per descrivere lo stato del Paese in cui ci si trova. Ci serviva una pandemia per accorgerci di essere perennemente tutti sulla stessa barca?

Povegliano Veronese (VR), 24 aprile 2020

NON CREDO

di Bruno Carmi, studioso di ebraismo

In questi giorni mi mancano tante cose, mi manca il caffè ristretto non zuccherato al bar ogni mattina e le parole scambiate in quel luogo tra mia moglie e le ragazze al bancone. Mi manca poter stringere la mano a chi incontro o abbracciarla e, a seconda dei casi, scambiarsi uno, due, tre baci. Vorrei non dover stare a casa solo perché sono gentilmente e pedissequamente obbligato a farlo e vorrei sedermi su una panchina a leggere il giornale o camminare in un parco pubblico solo perché mi è severamente vietato.
Non sono affatto convinto che tutto quello che sta succedendo porterà a migliorare la convivenza degli umani. Non credo che la democrazia sarà migliore, non credo che la distribuzione della ricchezza sarà più equa e neppure che la solidarietà sarà un comportamento acquisito per sempre. Non credo che l’unità dell’Europa sarà un valore maggiormente condiviso e che si risolveranno i conflitti solo perché avremo capito che è meglio costruire che distruggere, è meglio vivere che morire. Non credo neppure che capiremo quale patrimonio avremo perso con la scomparsa di tanti anziani che erano portatori di affetti e anche della memoria di tanti orrori del novecento. Non credo che ci sarà meno corruzione e meno evasione fiscale e così potrà svilupparsi un’economia sana e quella criminale scomparirà.

Il principio del Tikkun olam, letteralmente ‘riparare il mondo’, ispira la consapevolezza che il mondo possa divenire un luogo migliore e più giusto attraverso le buone azioni e l’impegno politico
(FOTO:  Diogo Salles / Getty Images).. 

Vorrei che tutto questo accadesse, perché avremo capito che quella è la strada giusta per progettare un mondo migliore. Ma dubito che sarà così. C’è un termine in ebraico, Tikkun Olam, che significa proprio riparare il mondo e che è un passo importante verso il miglioramento avendo acquisito consapevolezza dei propri sbagli. Non lo so e vorrei tanto che tutto il male di questi mesi ci portasse davvero qualcosa di buono; allora, per non essere troppo pessimista, cerco nel nostro comportamento quotidiano fatto di tanti divieti ed obblighi, qualcosa da mantenere anche quando avremo superato ogni emergenza.

Verona, 21 aprile 2020

NON MOLLARE

di Enrico Mottinelli, scrittore

Nel tempo del virus si verificano curiosi cortocircuiti. Per esempio, in Israele il ministro della Salute, il rabbino ultraortodosso Yaakov Litzman, dopo aver attribuito alla pandemia il titolo di «punizione divina» per la condotta contronatura degli omossessuali – un refrain che torna ciclicamente, già sentito ai tempi dell’Aids – è risultato positivo al Covid-19. Lui e la moglie. Il fatto ha costretto alla quarantena un buon numero di esponenti di spicco del governo, premier Netanyahu compreso, per aver ignorato il distanziamento sociale, che al momento pare essere l’unica contromisura e che senz’altro coinvolge anche gli omosessuali, ma non per le ragioni che ha in mente il ministro. La vicenda, se non mettesse così gravemente a rischio la salute delle persone coinvolte, farebbe sorridere. Cose che capitano a chi, troppo accecato dall’ideologia che professa, perde il contatto con la realtà. Nella laicissima Europa, invece, a molti è venuto il sospetto che il
virus, costringendoci alla reclusione domestica e alla semiparalisi di quasi ogni attività, abbia voluto mandarci un severo monito contro la frenesia del fare, dell’essere in movimento perpetuo, sempre a rincorrere obiettivi traguardi record. Sempre a correre, insomma (una colpa che solitamente si sfoggia con malcelato orgoglio). E allora, bene essere costretti a stare per un po’ sul divano a riscoprire altri ritmi e altri valori.

L’invito a “non mollare” su una via cittadina

Questo risultato, però, sembra tutt’altro che scontato. Costretta al non fare nulla o quasi, l’intraprendenza ipercinetica dell’europeo postideologico si è ripresentata nascosta sotto altre vesti: l’imperativo del #NonMollare. È il nuovo dogma. Nel tempo del virus, il credo del Non Mollare pare riprodurre lo stesso slancio ipervolitivo che (forse) il virus avrebbe voluto idealmente correggere, riconsegnando a coloro che non reggono la pausa forzata l’illusione di fare comunque qualcosa. Non mollare, appunto. Insistere, per esempio, nel rispettare le misure emanate per arginare la pandemia, certo. Ma il messaggio sembra andare un po’ oltre, punta semmai a una complicità della specie, a un fare quadrato contro il nemico, a non cedere terreno, a salvare la «roba». In definitiva, a mantenere lo status quo morale e valoriale di prima così da ritrovarcelo intatto quando sarà passata la bufera, e noi potremo finalmente tornare a fare e a vivere come facevamo, tirando un sospiro di sollievo, ben protetto, presumibilmente, da una mascherina. Non mollare, dunque, assomiglia tanto a un gigantesco «non imparare», non entrare in contatto con tutto ciò che questa sorprendente, tragica e inedita situazione potrebbe davvero insegnarci se mollassimo invece un po’ di zavorra e accettassimo che non c’è alcuna «punizione divina» a consegnarci un perché già bello confezionato. Forse perché in fondo non c’è alcun perché, ma solo nuove prospettive. A noi scegliere da che parte volgere lo sguardo.

NONNI

di Donata Righetti, giornalista

Chiamiamoli onestamente “vecchi” o , se preferiamo una definizione più asettica, “anziani”. Ma non “nonni”, per decenza. Perché dietro questa etichetta appioppata di colpo a centinaia di migliaia di cittadini si intravvede, sotto una finta patina affettuosa, un’inaccettabile  sottovalutazione. Una persona può essere nonno o nonna, ma non esiste una comunità anagrafica di nonni, così come non esiste una comunità anagrafica di genitori,  o di cugini, o di zii. E invece nella tragica ma anche sconsiderata era del corona virus  ecco sbucare con contorno di sorrisetti protettivi e di circostanza la generazione dei “nonni”. Una generazione di individui in questi mesi condannata a un’autentica ecatombe . Vittima di vere e proprie stragi  stando alle agghiaccianti contabilità delle varie case di riposo gestite con disinvoltura  da personaggi scelti non per competenza ma per appartenenza politica.

Giorgio De Chirico, Ritratto della madre, 1911

Una generazione che di sicuro non merita il tono di fastidiosa retorica che in questi tempi drammatici di pandemia le viene riservato. “Nonni” presentati come bambini indifesi  da tenere rinchiusi per il loro bene , “nonni” in omaggio ai quali i più giovani per generosa scelta indossano mascherine o se ne stanno a casa. “Nonni” che sul video di solito hanno l’aspetto di bianchi e macilenti vegliardi sorretti da forzuti infermieri o impossibilitati a muoversi se non in sedia a rotelle. “Nonni” ( tradotto: ultrasettantennni) untuosamente lodati in tv e altrove da tuttologi in veste di giovincelli preoccupati e amorosi ( e che di solito hanno superato i sessanta). “ Nonni”:  e in questo appellativo familiare usato a sproposito si nasconde qualcosa di irritante e supponente. Qualcosa che somiglia a un  “ tu” inflitto dall’alto.
Lo sappiamo, sono gli ultrasettantenni le vittime preferite da questa pandemia . Perché l’età  rende più vulnerabili. Non per questo i meno robusti in base all’anagrafe  meritano di essere rimpiccioliti a creature dolciastre e indefinite da librino  per l’infanzia. Gli anziani hanno diritto al rispetto. Per tanti motivi. Uno particolarmente vistoso: in Italia sono soprattutto i cosiddetti “ nonni” con le loro pensioni e i loro risparmi a mantenere giovani e giovanissimi.

Milano, 21 aprile 2020

NOSTALGIA

di Alessandro Rivali, poeta e saggista


La carezza sul volto della persona amata. O una camminata nella primavera. O le grida e le corse sprigionate dall’infinita fantasia dei bambini. È difficile stilare la graduatoria dell’assenza in questa infinita quarantena.
Per questo ho scelto la “nostalgia” come dominante delle nostre giornate. Per il ventaglio dei suoi colori è un sentimento difficile da decifrare, che non ha un esatto contrario, per esempio, come l’odio rispetto all’amore. Forse la nostalgia è la stella che accende la visione dei poeti, che scrivono sempre per ritrovare l’Eden perduto. Per il nostro tempo accelerato, la nostalgia sembra il colore della sconfitta. L’uomo “sicuro di sé” che tanto spaventava Montale non ha tempo per la nostalgia. È tutto proteso alla programmazione, alla prestazione…

Louis Jean François Lagrenée (1725-1805), Melancholie


Sulla nostalgia ha scritto pagine meravigliose Romano Guardini, approfondendo la vita di un grande malinconico come Kierkegaard. Per Guardini la nostalgia è una chiave d’accesso a una lettura più autentica dell’esistenza: «Malinconia vuol dire affinità con lo spazio infinito; con le vuote lontananze: il mare, la brughiera, i nudi dossi montani, l’autunno che fa cadere le foglie e dirada e schiarisce gli spazi; il mito, con le sue distanze temporali, che si perdono nell’indefinito passato… Questa malinconia che toglie valore agli esseri, che svuota di contenuti figure e valori ben stabiliti e fermi… Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. Splendono chiari, a lui, i colori del mondo; a lui risuona con dolcezza più intima, la musica interiore» (Ritratto della malinconia).
Siamo in uno scenario sospeso, in cui un inedito e invisibile Re Mida ha paralizzato ogni cosa al suo passaggio riducendola al silenzio: vorrei che la nostalgia potesse essere una risorsa di crescita interiore, per farci più umili, più attenti a quanto abbiamo perduto, per rileggerlo magari con occhi nuovi quando lo ritroveremo. Chissà che non ci accade quanto scrisse Ungaretti nel Dolore: “Ora che l’innocenza / Reclama almeno un eco, / E geme anche nel cuore più indurito; / Ora che sono vani gli altri gridi; / Vedo ora chiaro nella notte triste”.
Forse la nostalgia ci disporrà ad ascoltare meglio chi abbiamo accanto. Ci farà più attenti alle piccole cose, quelle cantate da Borges nei Giusti, la poesia che rileggo ogni giorno dall’inizio della quarantena: “Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. / chi è contento che sulla terra esista la musica. / chi scopre con piacere un’etimologia. / due impiegati che in un caffè del sur giocano in / silenzio agli scacchi. / il ceramista che premedita un colore e una forma. / il tipografo che compone bene questa pagina, / che forse non gli piace. / Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto. / chi accarezza un animale addormentato. / chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto. / Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson. / Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. / Queste persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo”.


Milano, 14 aprile 2020.

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